RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Bistecca alla fiorentina

e pasticceria viennese

Parola d'ordine: dimenticare il Decameron. Contrordine: ma neppure troppo. Se – come diceva Flaubert – “Madame Bovary sono io”, e dunque ogni grande scrittore è sempre autobiografico, il Boccaccio messo in musica nell'operetta eponima di Franz von Suppé non è poi così lontano dal grande Certaldese: facendogli vivere in prima persona lazzi, beffe e scorribande erotiche di decameroniana memoria, Suppé e i suoi librettisti portano in scena un gigante della letteratura a tu per tu con il proprio mondo narrativo, in un'osmosi tra affabulazione e vita vissuta che la zampillante inventiva musicale – sempre fresca e gentile, talvolta anche scatenata – rende assai godibile ancor oggi.

D'altronde il Boccaccio del cavalier Suppé-Demelli, dalmata viennesizzato, era un prodotto amabilmente rétro già in quel 1879 in cui vide la luce al Carltheater: per la sua fiorentinità da cartolina, gli stornelli pronti a stemperarsi in un ritmo di valzer, le salacità del modello letterario debitamente ammorbidite, il senso della morte (capitale nel Decamerone, con la peste che incombe su tutti) totalmente espunto. Ma pure di quella «compassione degli afflitti» che è «umana cosa», come recita il proemio delle cento novelle boccaccesche, resta ben poca traccia: questo Boccaccio operettistico non va oltre il trionfo della gioventù bella e vitale sulla vecchiaia arida e gabbata. E, d'altronde, perché chiedere di più a un'operetta?

Il melomane medio, in Italia, tende a trascurare le operette. Di Boccaccio, magari, sa che fu tra i titoli affrontati dalla Callas a inizio carriera: ma i suoi couplet e i suoi duetti, proverbiali in Austria e Germania, non gli dicono molto. Motivo di più per recarsi a Fulda – oasi di sfarzo barocco, con qualche angolo medievale, non lontana da Francoforte – e assistere nel locale Schlosstheater (la sala risale agli anni Settanta, senza infrangere la magia della sontuosità circostante) a una recita del gioiellino di Suppé: una produzione che proviene da Hildesheim, e gira varie altre piazze della Germania centro-settentrionale. Anche perché l'orchestra del Theater für Niedersachsen sfoggia un ventaglio dinamico notevolissimo (sarebbe interessante ascoltare un simile complesso a tu per tu con i crescendo rossiniani) e il suo direttore, Florian Ziemen, ha buon gioco nel restituire tanto la grazia quanto lo scintillio della partitura.

Del tutto a loro agio in una messinscena gradevolmente bozzettistica e totalmente tradizionale (Guillermo Amaya firma la regia, Hannes Neumaier le scene), i cantanti-attori danno vita a un caleidoscopio umano di farsesca stilizzazione. Spicca su tutti il Lambertuccio di Uwe Tobias Hieronimi: “buffo”, sì, ma pure autentico basso, senza trucchi e accomodamenti verso il parlato, che pennella una sorta di Beckmesser untuoso e dinoccolato, destinatario di una delle beffe più paradigmatiche del Decamerone – quella dell'albero fatato. L'altra grande burla boccaccesca, ossia quella della botte, è invece ai danni del Lotteringhi di Jan Kristof Schliep, “buffo” più caricato in taglia tenorile, mentre Levente György chiude in simpatia il terzetto dei mariti cornificati.

Sul fronte femminile, Martina Nawrath ha il lirismo cortese e trasparente che si addice a Fiammetta; Antonia Radneva si destreggia nella scrittura canora più complessa della partitura, anche se la sua Beatrice è verosimilmente lontana da quanto a suo tempo fece la Callas; Theresa Hoffmann offre sapidi affondi contraltili a una Peronella matura, ma con gli ormoni a pieno regime; mentre quelli degli spettatori – di ormoni – vengono sollecitati a dovere dall'Isabella di Neele Kramer, davvero seducente oltre che di professionalissima tenuta vocale. Chi invece delude un po' è proprio il protagonista: Dirk Konnerth ha smalto tenorile gradevole e sornioneria da commediante navigato, ma l'emissione in alto tende a scompaginarsi e quando deve giocare la carta dell'italianità – secondo tradizione, Florenz hat schöne Frauen qui viene direttamente intonato come Mia bella fiorentina – si adagia su un canzonettismo dal cuore in mano, questo sì da luogo comune.

Eppure, tutto sommato, anche ciò rientra nelle regole del gioco. E poi, per chi vuole riappropriarsi del Boccaccio vero, c'è sempre il Decamerone in biblioteca.

Paolo Patrizi

4/12/2015

La foto del servizio è di Jochen Quast.