Attualità di Bohème
Nell'intenzione di sfuggire le tentazioni del trito tradizionalismo Àlex Ollé, elemento di spicco dell'estetica espressa dal gruppo catalano La Fura dels Baus, ambienta Bohème nella periferia di un anonimo agglomerato urbano. Del resto già Puccini sembrava voler abbandonare le atmosfere parigine del libro di Murger, fonte del libretto, per guardare alla Milano scapigliata del proprio tempo. Senza raggiungere gli eccessi coloristici e barocchi di un Baz Luhrmann, il regista spagnolo si limita a trasporre la vicenda nella contemporaneità. Ne risulta uno spettacolo tutto sommato coerente, che non avrebbe meritato le contestazioni plateali di un pubblico a volte arroccato su posizioni eccessivamente passatiste. Casomai si potrebbe obiettare a Ollé proprio il contrario, cioè di non aver osato qualcosa in più. Ridotte le idee, in un'impaginazione che segue piuttosto pedissequamente il dettato originario (non bastano i venditori ambulanti inseguiti dai carabinieri per aprire uno squarcio significativo sulla società moderna).
Inevitabili ma non fastidiose le frizioni con il testo; abbandonata la penna, Rodolfo si affida a un computer, Marcello appare più come un moderno writer che come un pittore da cavalletto, mentre non c'è naturalmente traccia dei comignoli e delle soffitte parigine. Nel primo quadro i giovani artisti offrono uno spinello al padrone di casa venuto a riscuotere l'affitto, prima di allontanarlo stigmatizzandone falsamente la dubbia moralità. Una varia umanità popola la scena; prostitute adescano i clienti sullo sfondo del dramma d'amore fra Mimì e Rodolfo, un barbone dorme su una panchina mentre Marcello e Musetta esprimono nel litigio i propri debordanti temperamenti. Il verismo pucciniano, inteso come espressione di sentimenti comuni fra persone comuni e non come esplosione esagerata di violente passioni, trova qui una declinazione sostanzialmente adeguata. L'intelaiatura scenica permette allo spettatore di sbirciare all'interno del grande caseggiato che occupa la scena. Le dimensioni ridotte delle abitazioni veicolano un senso di claustrofobica oppressione, ma riducono anche le possibilità di movimento dei protagonisti. Efficace il terzo quadro, in grado di trasmettere il tragico che si cela dietro il sentimentale. Che poi Mimì muoia per un tumore piuttosto che per la tisi, calva e provata dalle terapie, non appare particolarmente significativo. Alla fine la commozione rimane, insieme all'impressione di aver assistito a una vicenda senza tempo, immortale nella propria capacità di evocare un momento irripetibile della vita umana, facendone presentire il carattere fragile ed effimero. La giovinezza, con la sua incoscienza, i suoi drammi e le sue illusioni e lì, di fronte a noi; e questo è già abbastanza.
Apprezzabile l'esecuzione musicale. Henrik N ánási inizia timidamente, poi cresce offrendo un'esecuzione dal coinvolgente afflato emotivo. Anita Hartig è una Mimì poetica ma a tratti eccessivamente esile. Anche lei sembra acquistare sicurezza con l'evolversi della vicenda, per raggiungere la massima concentrazione nel finale. Volenteroso Giorgio Berrugi nei panni di Rodolfo. La voce non è particolarmente squillante nell'acuto ma le intenzioni ci sono tutte, e vengono risolte in maniera quasi sempre convincente. Olga Kulchynska incarna una Musetta di grande temperamento, percorsa da una inestinguibile carica erotica, ma anche capace di profondi sentimenti. Nel complesso valido il gruppo dei bohèmienne, Massimo Cavalletti (Marcello), Simone Del Savio (Schaunard) e Antonio di Matteo (Colline).
Riccardo Cenci
19/6/2018
La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.