Barcellona
Ancora una Bohème
La bohème è un titolo sicuro e amato. In tempi di crisi offre un riparo per il botteghino e anche per il pubblico in generale. Ma almeno in teatri con un'importante tradizione di versione bisognerebbe stare un po'attenti: la maggior parte della gente accetta con gioia rivedere un capolavoro alla prima si sfiorava il tutto esaurito e non si cura troppo del livello artistico; una minoranza invece non è troppo felice se gli si dà uno spettacolo degno sì ma privo di almeno qualche elemento di grande rilievo. Non sto parlando delle star il Met lo fa, e magari qualche star non lo è così tanto, ma questo è un altro discorso ma di qualcosa che veramente consenta di capire davvero perchè si tratta di un capolavoro e non di un insieme di melodie godibili.
Questa volta si sceglieva l'ormai noto (ma qui si trattava di una prima) allestimento firmato da Jonathan Miller, e lo si vide non solo commosso ma alquanto invecchiato quando a fine spettacolo usciva con i suoi colleghi di regia a ricevere una vera e propria ovazione. Niente da dire, un classico che magari dovrebbe fare più attenzione a certe situazioni o parole del libretto che la musica riflette e che qui non trovano riscontro o risultano confuse o fuorvianti. Gli anni Trenta del Novecento hanno poco da spartire con La Barrière d'Enfer', tanto per fare un esempio.
Il coro preparato da Conxita García era a posto, non così quello dei bambini (Cor Vivaldi-Petits Cantors de Catalunya, preparato da Óscar Boada). L'orchestra: quasi niente da dire sul piano materiale dell'esecuzione, ma certi momenti erano un po' forti, altri poco sottili. Marc Piollet era una bacchetta attenta, ma tutto finiva qui.
Dal lato cantanti, gli uomini risultavano superiori alle signore. Matthew Polenzani era un buon Rodolfo, di voce non troppo bella nè personale, forse più leggero di quanto desiderabile; l'acuto era a posto ma con qualche sforzo arrivare a una nota non è un problema, tenerla qualche volta sì. Artur Rucinski è una bella voce di baritono, ma l'acuto non è della stessa qualità di centro e grave; piazzato indietro non è sempre sicurissimo. Paul Gay era, all'epoca della sua presentazione al concorso Regina Elisabetta di Bruxelles, una delle speranze del canto francese. La voce è grande ma è diventata secca e rigida, con problemi d'intonazione. David Menéndez era uno Schaunard accettabile, e corretto e non più Fernando Latorre (Benoît e Alcindoro). Discreti gli altri signori.
Tatiana Monogarova, una voce troppo scura e quasi senza squillo, è forse una buona scelta per il repertorio slavo, ma per Mimí l'emissione gutturale, i difetti di dizione, un atteggiamento freddino o distante non venivano compensati da un buon acuto e qualche bel piano pochi per la verità; stranamente in centro e grave la voce si perdeva più di una volta. Una scelta assolutamente sbagliata. Nathalie Manfrino cantava discretamente Musetta (i suoi acuti sono sempre più fissi e bianchi) e l'interpretava senza esagerare ma anche senza brillare particolarmente. Aspettiamo a vedere (e sentire, che di questo soprattutto mi pare che si tratti) il secondo cast.
Jorge Binaghi
La foto del servizio è di Antonio Bofill.
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