L'Opera di Roma apre con il
Mefistofele astratto di Simon Stone
Nell'allestire il Mefistofele di Arrigo Boito al Costanzi il regista Simon Stone, al suo debutto operistico in Italia, elimina ogni orpello ottocentesco inserendo l'azione in una scena astratta e sostanzialmente algida, il cui vuoto rappresenta il nulla che minaccia l'anima del protagonista. Il dualismo alla base della vicenda non viene declinato nel classico contrasto fra bianco e nero, ma attinge a una bianchezza abbacinante che evoca il mistero dell'esistenza, additando simbolismi cari alla narrativa di Melville. Le luci di James Farncombe tingono di colori pastello la scena, come quando nel Prologo in cielo Mefistofele risale dagli inferi su una scala a chiocciola, gettando cromatismi scarlatti nel nitore imperante sulla scena. Il diavolo emerge enfio e sudato, mentre cerca sull'iPad il profilo della sua prossima vittima. Il coro appare immobile o quasi, qui come nel grande sabba, trasformato in una sorta di comizio fascista. Dal suo podio dittatoriale, Mefistofele arringa la folla giocando con il simulacro del mondo, mentre un maiale sgozzato viene issato alle sue spalle. Nel primo atto la celebrazione pasquale assume i contorni di una festa paesana, con la giostra immacolata e il venditore di pop-corn. Il frate grigio sotto i cui panni si cela il tentatore cede il posto a un clown; Stone sembra attingere all'immaginario di Stephen King, con il pagliaccio che appare sia attraente che inquietante agli occhi degli spettatori. Lo studio di Faust dove viene siglato il patto è una sorta di gabinetto medico, con radiografie animalesche appese alle pareti. Peccato che il regista decida di far entrare in scena due ragazze discinte, riducendo al semplice appagamento sessuale le profonde implicazioni del capolavoro goethiano delle quali Boito è consapevole, pur non potendo tradurle per intero nonostante le ambizioni che sono alla base della sua ispirazione. Di ludica levità la scena del giardino, con le coppie amoreggianti all'interno di una piscina da bambini colma di palle colorate. Gli scatti effettuati con il telefonino richiamano il vezzo narcisistico della nostra epoca, ma si tratta di un gesto già usurato e poco significativo dal punto di vista registico. Durante l'aria di Margherita “L'altra notte in fondo al mare” sullo sfondo, in maniera un poco didascalica, viene mostrata la vicenda terrena della donna. Il sabba classico recupera elementi architettonici di tradizione, mentre la morte coglie Faust in una casa di riposo. Allestimento nel complesso lineare, con alcune idee efficaci e altre meno buone. Minimali le scene di Mel Page, il quale è autore anche dei costumi. Peccato che i numerosi cambi di scena abbiano rallentato non poco lo spettacolo, rendendolo più macchinoso del dovuto. Il merito maggiore va alla parte musicale. Mariotti svecchia la partitura evidenziandone i caratteri progressivi. Le ampie arcate del Prologo non sfociano nella magniloquenza, ma trovano perfetta coerenza espressiva. L'eclettica partitura, punteggiata di arie, ballate, complesse costruzioni contrappuntistiche e colossali edifici sonori, trova in Mariotti interprete duttile, sensibile e attento.
Riguardo il cast, John Relyea è un Mefistofele perfettamente a fuoco, moderno e mai sopra le righe, dalla voce profonda e cavernosa, appena un poco affaticato nel finale. Joshua Ferrero è un Faust squillante, ma sostanzialmente monocorde e dal timbro piuttosto ingrato. Al contrario Maria Agresta, nel duplice ruolo di Margherita ed Elena, brilla per espressività e tenuta vocale. Completavano il cast i bravi Sofia Koberidze (Marta e Pantalis) e Marco Miglietta (Wagner). Pubblico non particolarmente numeroso alla terza replica, ma plaudente e scevro dalle contestazioni alla regia che avevano caratterizzato la prima.
Riccardo Cenci
2/12/2023
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
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