ANNA BOLENA
AL THÉÂTRE MUNICIPAL DI TOLONE
Pochi sanno, ancora oggi, che la riscoperta di Anna Bolena risale al 1947 ed ebbe luogo a Barcellona. Il Liceu volle in quell'anno celebrare il centenario della propria esistenza riportando sulla scena l'opera che lo aveva inaugurato nel 1847. Ne fu protagonista il soprano catanese Sara Scuderi, la cui fama non era affatto oscura. Seguì nove anni dopo la ripresa da parte del Teatro Donizetti di Bergamo. Ma soltanto la terza Bolena, varata dalla Scala di Milano nel 1957 e associata indissolubilmente a Maria Callas, doveva propiziare, con la sua vasta risonanza, il rilancio vero e proprio del dimenticato capolavoro donizettiano. La lunga e intensa carriera ottocentesca di Anna Bolena, iniziatasi nel 1830 al Teatro Carcano di Milano, si era infatti conclusa a Los Angeles nel 1890.
A Tolone sono stato spettatore della mia seconda Bolena francese, dopo quella ormai lontana del gennaio 1979 al Théâtre des Arts di Rouen con la valorosa Françoise Garner e diretta da Paul Ethuin.
Il massiccio primo volet della non premeditata trilogia Tudor donizettiana, che, per proporzioni e struttura, si richiama in qualche modo all'imponente Semiramide di Rossini (1823), segna convenzionalmente lo spartiacque nella produzione teatrale del Bergamasco , il quale si affianca così al più giovane collega Bellini, dimostrandosi semmai un romantico più convinto e acceso del Catanese. «Epopea musicale», nelle parole di Mazzini, la Bolena trascina e avvince sin dalle prime note dell'ouverture (in cui si avverte una certa aria di famiglia con quella di Semiramide) con una invenzione musicale sapientemente dosata e sfaccettata nell'incisività dei vari momenti del dramma, che culmina nel grandioso e folgorante finale ultimo.
Lo spettacolo al quale ho assistito il 18 novembre (terza ed ultima rappresentazione) si è svolto davanti a una sala gremita e partecipe.
Il Théâtre Municipal di Tolone risale agli anni Sessanta dell'Ottocento e, tra una dovizia di stucchi, dorature, medaglioni, busti, mosaici, affreschi, velluti dove predomina il rosso e ornamentazioni varie, “fotografa” lo sfarzo e la magniloquenza del secondo impero.
L'allestimento della Bolena proveniva dall'Opéra National di Bordeaux, dove era andato in scena in maggio con un altro cast. La scena unica concepita da Erich Wonder è uno spazio indeterminato attraversato orizzontalmente da un tramezzo trasparente, aperto al centro da un grande squarcio quadrangolare sghembo, che separa la fronte della scena, in cui si muovono i personaggi, dallo sfondo riservato ad avvenimenti esterni (nel finale ultimo, ad esempio, mentre Anna attende nel carcere l'ora del patibolo, dietro di lei sfila il corteo delle nuove nozze di Enrico VIII). Se i costumi di Kaspar Glarner si richiamano al XVI secolo, la regia di Louise Bischofberger, assistita da David Herrezuelo, situa l'azione in un antico approssimativo che si protende nel moderno attuale, poiché fatali, ieri come oggi, restano le stanze e i giochi del potere. Le luci notturne o di albe livide di Bertrand Couderc scandiscono efficacemente lo scorrere della vicenda. Nei movimenti e nella mimica, gli interpreti, ben coordinati dalla regia, rendono di volta in volta tangibili gli stati d'animo cangianti e conflittuali dei rispettivi personaggi.
I due lunghi atti hanno subito vari tagli, in parte comprensibili e che non hanno squilibrato troppo l'esecuzione (anche nel secolo d'oro si tagliava). Ne hanno fatto le spese i da capo delle cabalette tranne la conclusiva. Giuliano Carella ha guidato con salda mano l'Orchestra dell'Opera di Tolone, che lo ha prontamente secondato. L'esperienza pluridecennale del direttore milanese nel repertorio alternativo della prima metà dell'Ottocento è emersa appieno nella brillante e vivida esposizione, nella varietà di colori e nelle dinamiche appropriate, traducendo nei suoni i palpiti delle passioni dipinte da Donizetti.
Nella Bolena il Coro va a nozze, ma ci deve andare anche lo spettatore e così è stato, sin dal coro di apertura dei cortigiani, che sommesso e inesorabile “detta” la conclusione imminente. Il Coro della Casa era diretto da Christophe Bernollin.
Il soprano Ermonela Jaho, quale protagonista dal nobile profilo, ha con pieno merito reso i tormenti e la dolcezza rassegnata di una regina a cui sta per essere strappata la corona. Non tende a forzare il suo canto espressivo, pur indulgendo nel coprire i suoni, e lo sfuma in delicati pianissimi, rendendo giustizia alle tappe memorabili che le assegna lo spartito fino al tour de force della conclusione. Più veemente ma non meno persuasiva la Giovanna Seymour del mezzo soprano Kate Aldrich, combattuta tra l'amore per il re e la pietà per la regina di cui è rivale, contrasta eloquentemente ora con Anna ora con Enrico VIII. Quest'ultimo, se ha trovato nel basso (ma è davvero un basso?) Simon Orfila tutto il cinismo e la prepotenza del personaggio, non si è spinto oltre un canto approssimativo e tonante. A completare degnamente il quartetto dei personaggi principali, il Percy del tenore Ismael Jordi non smentisce le speranze, ormai solide certezze, riposte in lui. L'eleganza, il vigore del suo timbro solare e il magnetismo delle sue incarnazioni viene qui confermato per l'appagamento dello spettatore.
Il mezzo soprano Svetlana Lifar, en travesti quale Smeton, disegna un paggio bamboleggiante e maldestro, ma si difende quando canta. Hanno onorevolmente completato il cast il basso Thomas Dear nel ruolo di Rochefort (fratello di Anna) ed il tenore Carl Ghazarossian in quello del bieco Hervey, braccio destro del re.
Fulvio Stefano Lo Presti
26/12/2014
Le foto del servizio sono di
Frédéric Stéphan.
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