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Cercando Igor

A Trieste una produzione ucraina del capolavoro di Borodin

Paratattico nella struttura ma rapsodico nella narrazione, com'è talvolta nel destino dei lavori rimasti incompiuti, Il principe Igor abbina l'espositività didascalica (un po' fuori tempo massimo per un'opera di fine Ottocento) a una frammentarietà – col senno di poi – novecentesca, ancorché preterintenzionale in un autore poco incline alle sperimentazioni come Borodin. La fortuna della partitura sta certo in una serie di brani isolati, a cominciare dall'affresco coreutico-corale delle danze polovesiane, più che nell'empatia tra pubblico e personaggi: e ciò fa pendere l'ago della bilancia verso una recezione esornativa, “a-drammaturgica”. Eppure, quegli stessi personaggi – forse più isolatamente considerati che all'interno del contesto complessivo – un'indubbia icasticità drammatico-vocale ce l'hanno; e che una versione definitiva del Principe Igor, di fatto, non esista (dopo la morte di Borodin vi hanno messo mano in molti e con stesure diverse) raddoppia le ambiguità e scompagina le certezze.

A Trieste si è data un'edizione che sopprime il terzo atto, dove di musica davvero borodiniana restano solo pochi frammenti: il che da un lato imprime sapore parafilologico, dall'altro aumenta le ellissi narrative. Poteva essere il volano per una messinscena pensosa, una sorta di “Studio sul Principe Igor”: ma lo spettacolo proveniente da Odessa (allestimento, compagnia di canto e corpo di ballo sono ucraini, mentre orchestra e coro restano triestini) è quanto di più calligrafico e meno concettuale possa immaginarsi. Le scene di Tatiana Astafieva hanno discreto impatto figurativo, quell'icona di Madonna russa che domina lo sfondo non è solo un suggestivo colpo d'occhio; sulla distanza, però, si sente la mancanza di una regia (la firma Stanislav Gaudasinsky) che non si limiti, come qui sembrerebbe, a gestire le entrate e le uscite, o a governare la gestualità del coro.

Anche la recitazione dei solisti pare affidata all'iniziativa del singolo cantante piuttosto che a un disegno registico: il che va benissimo con un protagonista di sobria autorevolezza scenica come Viktor Mityushkin, o con il Khan sanguigno ma sornione di Viktor Shevchenko, e molto meno con altri interpreti attorialmente più impacciati. Mityushkin è comunque baritono di lungo corso, oggi arido nel timbro ma ancora cospicuo per risonanza, e fraseggiatore scabro ma signorile. Non altrettanto convincente, con un registro superiore un po' in disordine e una vis drammatica in sospetto di genericità, il soprano Anna Litvinova. A sua volta, Dmitry Pavlyuk si lascia sfuggire gran parte delle potenzialità del suo ruolo di violento e sulfureo cialtrone, che fu una delle più paradigmatiche incarnazioni di Šaljapin: molto più incisivo l'altro basso, appunto il Khan di Shevchenko, nonostante il ruolo venga dimidiato dalla soppressione del terzo atto. Penalizzata da un simile colpo di forbice, però, è soprattutto la coppia amorosa: ciò che ne resta trae profitto dalle sensuali ombreggiature mezzosopranili di Kateryna Tsymbalyuk, ma non entusiasma per la tenorilità ingolata, faticosa nell'espansione e nello squillo, di Vladislav Goray.

Resa lode al talento e alla simpatia delle parti di fianco (i due ubriaconi plasmati da Yuri Dudar e Alexander Prokopovich travalicano le semplici macchiette, la voce da soprano leggero di Alina Vorokh si ritaglia una bella inquadratura nel suo canto polovesiano, Viktor Muzycho è tenore comprimario penetrante e mercuriale), rimane la bacchetta di Igor Chernetski. Purtroppo la sua concertazione resta come intimidita dalla mancanza d'idiomaticità, in questo repertorio, dei complessi triestini. Ne sortisce un Principe Igor molto folkloristico e genericamente epico, ma disattento alle descrizioni paesaggistiche e inaridito nelle riflessioni liriche.

 Paolo Patrizi

22/2/2019

La foto del servizio è di Fabio Parenzan.