Mario Brunello… e il suo violoncello
La musica, quella vera, è magia. E proprio la suggestione del magico, del fiabesco, del sovrannaturale è stato il filo conduttore della diciassettesima serata della stagione dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), il 5 aprile 2018, in replica il 6, all'auditorium Arturo Toscanini di Torino.
La serata si apre con Franz Schubert e la sua Ouverture dall'opera Die Zauberhärfe (L'arpa magica) D 644. Il brano è sopravvissuto per miracolo all'oblio del tempo, ché, del resto dell'opera, tutto è andato perduto: fu un fiasco già a partire dalla prima (Theater an der Wien, 19/08/1820), in parte anche a causa di un libretto poco felice di Georg von Hofmann di argomento magico, filone che, per essere gradito al pubblico viennese (come non ricordare Die Zauberflöte di Mozart, di appena un trentennio precedente?), doveva presentare una certa coerenza interna, soluzioni e coup de théâtre accattivanti, pena l'allontanamento dal palcoscenico, come in questo caso.
Dalla Vienna di Schubert si passa alla San Pietroburgo di Nikolaj Rimskij-Korsakov e alla sua penultima opera teatrale, La leggenda dell'invisibile città di Kitež e della fanciulla Fevronija, composta nel 1903-04, considerata, per argomento e struttura armonica wagnerianeggiante, il Parsifal russo: ne viene eseguito lo splendido Preludio, o Inno alla natura, dove le note si fanno richiamo naturale, sulla scia di quella musica imitativa che va dalla Pastorale di Beethoven alla Prima di Mahler, passando dal Mormorio della foresta dal Siegfried di Wagner. Chiude il concerto L'Oiseau de feu Op.20, balletto del maggiore degli allievi di Rimskij-Korsakov, Igor Stravinskij, presentato nella terza Suite approntata dal compositore stesso del 1945.
Brani, tutti, che incorniciano l'unico estraneo al filone magico: il Concerto per violoncello e orchestra in la minore Op.129 di Robert Schumann, lavoro del 1850, intimo, dolente, che nulla cede all'esteriorità, ma tutto proietta sul piano di un'introversione riflessiva, espressione di una mente tormentata come quella di un compositore che di lì a pochi anni, finirà internato nel manicomio di Endenich, un quartiere di Bonn.
Sul podio è stato impegnato Gustavo Gimeno, dal 2015 direttore musicale dell'Orchestre Philarmonique du Luxembourg (OPL). Gimeno ha dato dell'ouverture di Schubert una lettura convincente, che con un po' di fantasia si potrebbe dire nello spirito di Haydn, seriosa più che seria, composta ed esente da quel brio al quale si guardava, nel mondo teatrale, soprattutto a Mozart da un lato e Rossini dall'altro; tutto questo fino alla rincorsa finale, dove la severità getta la maschera e si slancia verso il pubblico con uno sberleffo esecutivo davvero piacevole.
Solista d'eccezione, che non ha bisogno di presentazioni, chiamato ad interpretare il Concerto schumanniano, Mario Brunello ha incantato pubblico e critica per la sua sottile arte del vibrato, un vibrato che ha saputo trasfondere nella malinconia e nell'austerità delle note di Schumann la passione e il giusto mood carico di spleen a tratti patologico, di quel patologico, s'intende, romanticamente inteso: un violoncello che narra, che si confessa senza piagnistei, quasi sempre nel registro tenorile/contraltile, con sobrietà e con accento dimesso, salvo nel finale, dove anche il virtuosismo, ça va sans dire piegato ad arte da Brunello (e da Schumann) a scopi tutt'altro che impressivi, lascia senza fiato. Cuore poetico della composizione, il duetto tra il violoncello solista e il primo violoncello dell'orchestra (Pierpaolo Toso), condotto con dolcezza senza pari, ha saputo immergere la sala in un'atmosfera rarefatta, delicata e sublime, come poche volte accade, e il pubblico, non troppo numeroso, ha contribuito a rendere questo momento un agape musicale per pochi intimi. Il legato, infine, l'ha fatta da padrone in ogni passaggio, rendendo la parte solistica un flusso pressoché ininterrotto paragonabile a uno stream of consciousness musicale, davvero apprezzato e fondamentale per rendere al meglio il clima di questa composizione.
«Schumann amava Bach (e chi non ama Bach?), e ha armonizzato tutte le sue Suites per violoncello per orchestra d'archi»: con queste parole Brunello introduce l'encore splendidamente pensato (ed eseguito) a fine esecuzione: la Sarabanda dalla Suite per violoncello solo n°5 in do minore BWV 1011 (di cui Rostropovic ebbe a scrivere: «Nell'oscurità del suo disegno melodico è così inusuale da rassomigliare a musica contemporanea») armonizzata per violoncello e archi da Schumann: quale brano, per autore e clima espressivo, avrebbe meglio potuto adeguarsi in qualità di pendant all'Op.129 di Schumann stesso?
Poesia e leggerezza esecutiva contraddistinguono il breve Preludio di Rimskij-Korsakov, pausa distensiva prima dell'energica Suite di Stravinskij, dove la condotta riservata da Gimeno è risultata essere quantomeno inusuale: a parte le violentissime sferzate richieste alla grancassa nella Danza infernale (peraltro non così condannabili e in linea con un personaggio come Stravinskij che, con buona pace della sua affermazione: «Mi hanno dipinto come un rivoluzionario, mio malgrado» (cito a memoria, mi perdoneranno i più esigenti se non è citazione letterale), aveva di che considerarsi un tipo musicalmente fuori dagli schemi), il resto dei brani scorre con una placidità inconsueta, per una partitura così vivida e ricca di contrasti come questa: ma tutto l'entusiasmo musicale si scarica, come una molla prima tenuta compressa, nell'Inno finale, che però, a forza di accordi orchestrali scanditi in modo nettissimo, distanziati l'uno dall'altro da stacchi così lunghi da essere assimilabili a brevi pause, viene reso pesante, non fluido e, infine, non maestoso come un inno richiederebbe.
Interpretazioni. E su questo si può e si deve discutere. Non si discute invece sull'assoluta qualità esecutiva tenuta per tutta la sera dall'OSN, che si rivela, come sempre, fonte sicura di emozioni, l'unico vero fine della musica.
Christian Speranza
26/4/2018
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