Die Walküre alla Scala
McVicar riconduce Wagner al mito 
La dialettica tragica sottesa al Ring wagneriano trova il suo culmine in Die Walküre, prima giornata della colossale saga nibelungica. La presa di coscienza da parte del Dio Wotan della propria incapacità a sciogliere i nodi che lo avviluppano ne definisce la sostanziale vulnerabilità; è questo il fulcro della narrazione. Che poi la toccante vicenda dell'amore incestuoso fra Siegmund e Sieglinde ne abbia fatto il pannello più amato dell'intero Ring è dettaglio trascurabile. Il fascino che esercitano i singoli atti del dramma non deriva dalla perfetta coerenza dell'azione, e infatti non rare sono le esecuzioni del solo primo atto, ma appunto dalla intrinseca forza delle diverse parti che lo compongono. C'era molta attesa per la prima giornata del Ring, in scena al Teatro alla Scala a dodici anni di distanza dall'ultima rappresentazione integrale della Tetralogia wagneriana. Chi scrive ha assistito all'ultima recita del ventitré febbraio scorso, riportandone una forte impressione. La direzione di Alexander Soddy, che si alterna a Simone Young alla guida di questo Ring dopo la discussa rinuncia di Thielemann, ci è parsa magnifica, fantasiosa e coinvolgente. Alcuni esempi fra i tanti: il duetto d'amore conclusivo del primo atto pregno di palpitante passione, nel quale l'orchestra letteralmente respira con i protagonisti, accompagnandoli in maniera esemplare negli slanci quanto nei ripiegamenti lirici. Preziosismi dei fiati, solitamente affondati nel magma orchestrale, risaltano in tutta la loro bellezza e coerenza con il tessuto musicale. La celebre cavalcata del terzo atto viene distillata al suo primo apparire con cameristico nitore, salvo poi addensarsi in grumi possenti di suono. Ancora il finale, apice di commozione, splendido nella sua evidenza sinfonica. Non avendo ascoltato la Young non posso proporre un paragone ma, a mio giudizio, siamo di fronte a una lettura di grande profilo. Veniamo al cast. Anagraficamente parlando Michael Volle, classe 1960, giunge con qualche anno di ritardo al Ring scaligero. Detto ciò, a dispetto di una inevitabile usura vocale, è ancora un Wotan ragguardevole. Nel grande monologo del secondo atto, perno dell'intero Ring, mostra un registro grave un poco appannato, ma il fraseggio è vario e incisivo, brunito da una patina di intatta nobiltà. Nel terzo atto alcuni acuti appaiono forzati, ma il personaggio emerge in tutta la sua drammatica complessità. Il rovello interiore del Dio, irretito da un dilemma nel quale egli stesso si è rinchiuso, viene modellato con liederistica pregnanza emotiva. Anche i movimenti scenici più cauti, come l'età impone, paiono in linea con la resa di un Wotan stanco e vulnerabile, fiaccato dalla propria impotenza, anche se capace di improvvise impennate colleriche. Volle dosa le forze magistralmente, giungendo all'addio con voce piena e perfettamente adeguata alla grandiosità del momento. Gli sta accanto la Brünnhilde solida di Camilla Nylund, convincente nel delineare il progressivo sfaldarsi dell'algida divinità in una creatura mossa da sentimenti autentici. Alcune rare asprezze nelle note estreme non inficiano una prova di grande rilievo. Del pari eccellente la Sieglinde di Elza van den Heever, al suo debutto nel ruolo. La voce è importante, tagliente e ampia nelle accensioni drammatiche. Ne risulta l'immagine di una donna preda della passione, al limite dell'isteria quando diviene consapevole del tragico precipitare degli eventi. Accanto ad una Sieglinde al calor bianco, il Siegmund chiaro e fin troppo misurato di Klaus Florian Vogt. La tessitura quasi baritonale ha storicamente consegnato il personaggio a voci di solida caratura nel registro centrale, come Vinay, Vickers, King e, per giungere ai giorni nostri, Kaufmann. Vogt, pur sostenuto da indubbia musicalità, ci è parso piuttosto anemico nelle esternazioni eroiche, e non molto incisivo nel descrivere la melanconia dell'uomo tormentato da un infausto destino. Una prova sostanzialmente corretta, ma non in linea con i desiderata della parte. Okka von der Damerau è una Fricka spietata e manipolatrice; fa il suo ingresso in scena con il volto celato da un velo, dopo aver letteralmente sfiancato gli arieti che trasportano il suo carro. Il timbro corposo e nobile, la forza del fraseggio incarnano in maniera egregia lo sdegno della Dea. Resta l'Hunding di Günther Groissböck. In occasione dell'ultima recita, lo spettacolo è iniziato con un'ora di ritardo proprio a causa di un incidente automobilistico che ha visto coinvolto il celebre basso, fortunatamente senza conseguenze. Detto ciò, il ruolo del barbaro e rozzo Hunding non sembra attagliarsi del tutto alla sua vocalità. Buone le Walkirie, in grado di governare gli ardui intrecci all'inizio del terzo atto senza le consuete asprezze.
 David McVicar riporta il Ring alla sua sostanza mitica, sfuggendo qualsiasi sovrapposizione ideologica o politica, evitando di declinarne la sostanza in un dramma borghese. Il regista scozzese, da grande uomo di teatro, riconduce tutto alla recitazione. I momenti memorabili non mancano: la morte di Siegmund, aggrappato disperatamente al padre Wotan che, suo malgrado, è stato costretto ad abbandonarlo. Efficace anche il gesto con cui lo stesso Wotan, dopo aver annientato Hunding con una smorfia di disprezzo, uccide i suoi compagni con una semplice rotazione del corpo; o ancora il drammatico confronto fra Brünnhilde e il Dio, diviso fra la necessità di mostrarsi irremovibile nelle sue decisioni e la commozione destata dalle suppliche della figlia prediletta. Merito delle capacità attoriali dei cantanti aver reso tali istanti al meglio della loro potenza drammatica. La scenografia pensata dallo stesso McVicar, insieme a Hannah Postlethwaite, potrebbe provenire da un allestimento degli anni Sessanta, ma questo non è necessariamente un male. L'uso sapiente delle luci da parte di David Finn e le proiezioni di Katy Tucker modernizzano un materiale di tradizionale fascinazione. Nel primo atto i rami intrecciati suggeriscono un arcaico rifugio simboleggiando nel contempo i rovelli che dilaniano i personaggi. Una cancellata di ferro adombra il servaggio al quale è sottoposta Siegliende dal dispotico consorte, il quale non manca occasione per mostrare il proprio odioso dominio sulla donna impalmata a forza. I suoi compagni d'arme indossano maschere animalesche (i costumi sono opera di Emma Kingsbury), mentre il copricapo di Hunding è un terrificante teschio. Fiamme solcano a tratti la scena, spezzando l'oscurità imperante. All'inizio del secondo atto, Wotan agevola l'ascesa di due corvi prefigurando i voli funesti dei fatali uccelli nel Götterdämmerung. Grane, il destriero di Brünnhilde, è incarnato da un uomo che indossa sulle gambe arti bionici (come quelli degli atleti paraplegici), e una struttura metallica sopra la schiena che termina in una testa di cavallo. Una soluzione ingegnosa ed esteticamente valida, che torna all'inizio del terzo atto per le cavalcature delle Walkirie. Ancora nel secondo atto un mappamondo cinto da catene concretizza la volontà di potenza e dominio sul mondo, alla quale Wotan soccombe. Nel terzo atto un volto enorme, evocativo delle fattezze wagneriane, domina la scena: si aprirà per ospitare il giaciglio a forma di mano sul quale viene adagiata Brünnhilde. L'incantesimo del sonno si svolge con ieratica ritualità. Prima della conclusione, mentre il prodigio ancora riverbera i suoi magici suoni, il Dio viene abbigliato come il viandante che emergerà nelle fatate atmosfere del Siegfried. In questa maniera McVicar fornisce continuità narrativa, immergendoci nelle complesse dinamiche di quell'immenso e stupefacente edificio che è il Ring wagneriano. Conclusione con applausi scroscianti, del tutto meritati visto l'impatto dello spettacolo. Riccardo Cenci
27/2/2025
Le foto del servizio sono di Brescia&Amisano.
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