Settembre, andiamo…
Settembre, andiamo. È tempo di Madama Butterfly. Nel corso degli ultimi anni è diventata una piacevole consuetudine, al Teatro Massimo di Palermo, assistere al capolavoro pucciniano in occasione della tranche autunnale della stagione lirica: così è stato nel 2009, così anche nel 2012, quando protagonista dell'opera è stata la compianta Daniela Dessì, alla quale è stato dedicato l'odierno ciclo di rappresentazioni. Le ragioni di queste riprese periodiche sono naturalmente evidenti: perché il teatro trabocca di pubblico in ogni ordine di posti e l'applauso arriva facile e sicuro, nei momenti d'ordinanza. Pure, esistevano vari motivi di interesse per questa edizione, accolta con grandissimo favore di pubblico ma anche con qualche (prevedibile) dissenso.
Se la barca navigava in acque sicure, gran parte del merito va ascritto alla presenza di Hui He nel ruolo del titolo, peraltro già interpretato a Palermo sette anni or sono. Artista di solidissima caratura, affronta con sicurezza invidiabile uno dei ruoli più faticosi del repertorio pucciniano: possiede una voce di bella grana, piena, pastosa, e nel corso degli anni è ormai diventata un'autentica specialista del personaggio. Costruisce in maniera attenta l'evoluzione psicologica e musicale di Cio-Cio-San nel corso del lungo secondo atto: con ammirabile padronanza durante la lunga scena della lettera, che culmina in una confessione finale («Che tua madre») di notevole intensità. Pure, bisogna riconoscere una certa genericità interpretativa, che non la rende un'interprete di riferimento della geisha pucciniana: si ha spesso l'impressione, confermata dalla scena finale, che tutto sia correttamente al suo posto, ma che l'emozione sia altrove.
La circonda una compagnia di sicuro pregio, in cui anche i ruoli minori sono distribuiti in maniera accorta. Pinkerton è Brian Jagde, tenore americano di bella presenza e di vigorosa prestanza vocale, sicuro nel duetto d'amore ma addirittura travolgente nell'arioso d'addio, che mette in evidenza lo squillo di un timbro seducente. Ottimo Sharpless è Giovanni Meoni, perfettamente a suo agio nel canto di conversazione, costantemente in cerca di una varietà di accenti sempre incisiva e penetrante. Una menzione particolare merita la Suzuki di Anna Malavasi, che nel corso dell'ultimo anno si conferma comprimaria di lusso, presenza partecipe e pregnante, in crescendo durante l'ultima parte dell'opera, fino allo strepitoso terzetto con i due americani. Con la Kate Pinkerton di Milena Josipovic e il Goro di Mario Bolognesi, si segnalano soprattutto il tonante Zio bonzo di Manrico Signorini e l'efficace Yamadori di Vittorio Albamonte. Il coro, che ottiene applausi particolarmente sentiti nella famosa pagina “a bocca chiusa”, risponde alla guida di Piero Monti.
Una piacevole sorpresa è stata rappresentata dal debutto sul podio palermitano di Jader Bignamini: direttore dal gesto elegante e sicuro, capace di trovare il giusto punto di equilibrio tra esigenze del palcoscenico, fluidità narrativa e attenzione a una paletta orchestrale di iridescenti accostamenti timbrici. Madama Butterfly diventa, nella sua impostazione, una sorta d'ininterrotto continuum, uno stream of consciousness di cui sono opportunamente evidenziati alcuni picchi melodici (frasi memorabili come «Io seguo il mio destino» o alla fine «Sotto il gran ponte del cielo», passando dall'esplosione di quell'autentico climax che è «Trionfa il mio amor!») per assecondare, descrivere, evidenziare il tortuoso, appassionante iter mentale della protagonista. E la suggestione viene trasmessa al pubblico, che – salvo due, imprescindibili occasioni – opportunamente evita di interrompere l'esecuzione con applausi altrimenti inopportuni. Una prova notevolissima, la migliore dell'intera serata.
Suscita invece ben più di qualche perplessità la nuova produzione, coprodotta con Macerata Opera Festival, firmata da Nicola Berloffa per la regia e da Alexandra Jud per la drammaturgia, su scene di Fabio Cherstich, costumi di Valeria Donata Bettella, video di Paul Secchi e luci di Marco Giusti. Trasposta nel Secondo Dopoguerra, l'azione viene inquadrata all'interno di un teatro giapponese, dove Pinkerton, accompagnato da un gruppo di marines, assiste a un non meglio identificato spettacolo per turisti yankees: lì incontra Cio-Cio-San, lì immantinente celebra nozze che non potrebbero risultare più finte, quasi integrate nel copione teatrale. Nel corso del lungo secondo atto, invece, Madama Butterfly è ormai diventata la proprietaria-tenutaria della sala, dove proietta gli ultimi successi di Hollywood, in cui probabilmente s'identifica: e se può risultare azzeccata la citazione del finale di Perdutamente tua, con Bette Davis, meno convince il Coro a bocca chiusa accompagnato dal fluttuare equoreo di Esther Williams, peraltro del tutto privo di sincronia con la musica. Certo l'associazione tra la musica di Puccini e la nascente industria cinematografica è non priva di interesse: appena pochi mesi or sono – ma con ben altri esiti – Robert Carsen, per La fanciulla del West allestita al Teatro alla Scala, ha messo in evidenza lo stretto legame tra il genere western e l'opera americana del compositore lucchese, con tanto di happy ending finale, lungamente agognato dai minatori della California. Ma qui il parallelo stenta a decollare: e non tanto perché la forza del dramma non ha bisogno di ulteriori immagini a commento, ma soprattutto perché la tragedia giapponese risiede proprio nel fatto che Cio-Cio-San non finge e non interpreta: «Badate! Ella ci crede», severamente ammonisce il console, durante la celebrazione delle nozze.
E a questo bisogna aggiungere una menzione per l'anti-musicalità di alcune scelte: la sortita della protagonista («Ancora un passo, or via»), pagina tra le più emozionanti dell'intera partitura, ha da compiersi con il lento avvicinamento della geisha, in un crescendo che è al tempo stesso armonico (per la progressione impiegata da Puccini) e drammaturgico, visto che segna il germogliare del desiderio nella giovane donna al momento dell'incontro con Pinkerton. Qui invece è “lo spettacolo” rappresentato sulla scena – in uno strano gioco di teatro nel teatro – che si compie all'alzarsi di un sipario su un giardino di ciliegi: scena forse suggestiva, ma priva del pathos immaginato dal musicista. Che poi l'azione si dipani con rigore e efficace senso del teatro è, certo, merito di un regista attento alle valenze della recitazione, nel rispetto dell'idea di partenza: ma in certi casi è bene ricordarsi che fare i baffi a un capolavoro – o quanto meno una cornice diversa – è impresa molto più difficile di quanto sembri.
Giuseppe Montemagno
5/10/2016
Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.