RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Andrea Chénier

L'Andrea Chénier che è andato in scena presso il teatro Carlo Felice di Genova, il 17 aprile 2016, ha avuto un esito trionfale, confermando come la direzione del teatro stia inanellando, in questi ultimi tempi, un successo dopo l'altro. Con tutta una serie di ottime rappresentazioni che stanno riportando il Teatro Carlo Felice all'attenzione di un pubblico sempre più numeroso. Andrea Chénier di Umberto Giordano fila via di suo, non ha un attimo di stasi, non ha momenti di ombra o di calo dell'ispirazione. La solida architettura, la misura stilistica che raffrena certo slancio canoro troppo portato al «grido» verista, le valenze armoniche particolarissime, la folgorante prestanza tenorile di Chénier, la sfaccettata e molteplice personalità espressa da Gérard, la presa di coscienza di Maddalena che si riscatta da una vita frivola e vuota con un amore sincero, il coro, popolo della Rivoluzione francese ora festante ora giudice implacabile. Tutto questo è stato reso palpabile, immediato, sentito, in un vortice di consensi e di applausi.

Seppure l'allestimento fosse già conosciuto, opera del compianto Lamberto Puggelli (qui ripreso da Salvo Piro) per una edizione scaligera di qualche anno fa, la comprensione dell'opera rimane sempre cristallina, fragrante, immediata, vuoi per la sapienza registica (ormai diventata un classico per questa opera), vuoi per la direzione d'orchestra, vuoi per le voci che l'hanno caratterizzata.

Il tenore Gustavo Porta ha scolpito il suo Andrea Chénier, non solo con gli acuti folgoranti e chiari, d'una intensità e d'una lucentezza ineccepibili, ma ha dato prova di saper modellare e condurre la voce laddove era necessario e gli attacchi de «Un dì nell'azzurro spazio» (con standing ovation conseguente) del primo atto e la commovente «Come un bel dì di maggio» dell'ultimo atto, ne hanno dato saggio magistrale e hanno sottolineato, se mai ve ne fosse ancora bisogno, la grande caratura dell'interprete. Il personaggio Chénier rimane tenacemente solidale con i propri ideali verso l'amore cui è chiamato «Credo a una possanza arcana» e verso la patria che pure lo tradisce condannandolo a morte «Sì, fui soldato»: Gustavo Porta lo restituisce con eloquente ed espressivo fermento psicologico.

Non da meno è stata la definizione di Carlo Gerard da parte del baritono Alberto Gazale, dove l'intelligenza della prestazione sta nell'aver saputo rendere al meglio le complicate sfaccettature del personaggio con la coscienza che, fallendo il baritono in quest'opera, poteva andare a scatafascio l'intera produzione. Alberto Gazale ha voce del bronzo e del velluto, ha sensibilità nel porgere le frasi e scandire le parole. Ha declamato «Son sessant'anni» con estrema concretezza, dove l'immediatezza emotiva ha strappato, giustamente, il primo lungo applauso del pubblico che gremiva, in ogni dove, il teatro. Ma è stato in «Nemico della patria», il luogo deputato di tutta l'opera, che Gazale si è dimostrato interprete d'eccezione, di grande forza interpretativa e generosità, accogliendo il caloroso applauso del pubblico e concedendo il bis. Incollati letteralmente alla poltrona abbiamo assistito al delicatissimo cambiamento del personaggio. Dal quasi computistico «Nato a Costantinopoli?.../ straniero», allo sconvolgente «Un dì m'era gioja passar fra morte e morte» fino alla terrifica «Ah in lui la mia coscienza uccido» che ha reso palese le grandi capacità canore e interpretative di Alberto Gazale.

Col physique du rôle congeniale alla parte si è presentata il soprano Norma Fantini dalla voce possente e dalla interpretazione volitiva, amorosa e patetica d'indiscutibile finezza e tornitura. Il lavoro di trasformazione del personaggio, durante il prosieguo dell'opera, è stato ammirevole. La civettuola Maddalena del «Soffoco…moro/tutta chiusa/in busto stretto», già nell'accento sonoro del «Perdonatemi» comunica un'angoscia di attesa per qualcosa che sta nascendo in lei e che la turba. Questa sofferenza ella la dichiara a Chénier nell'«Eravate possente,/io invece minacciata» con voce modulata a una vibrante emozione. Sublime l'interpretazione intensa e partecipe de «La mamma morta», cantata con tale trasporto da creare palpabile trepidazione nel pubblico. Era Norma Fantini o era Maddalena? Il boato degli astanti, alla fine, ha riportato tutti alla realtà della finzione. Bravi tutti gli altri, e tra questi Enrico Salsi, ottimo «Incredibile».

Altra protagonista della serata, l'orchestra. La direzione di Giampaolo Bisanti, precisa e nello stesso tempo elegante, ha saputo restituire l'assoluta delicatezza dei dettagli e la possanza delle elettrizzanti pienezze sia timbriche, sia armoniche, che la partitura possiede per ogni dove, riuscendo a rendere certe finezze strumentali (qui l'eccellenza dei solisti!) nella giusta dimensione di una cifra drammaturgica salda e ognora sotto controllo, soprattutto nei fortissimi delle galvanizzanti scene di massa.

Il coro, preparato da Pablo Assante, è stato protagonista di ben costruite scene di massa, secondo una lettura storica più aggiornata che vuole l'opera di Giordano svincolata dalle pastoie dell'opera verista (e la citazione del Tristan-akkord, nel III quadro, ha sembianze crepuscolari). Sensibile a certe aspirazioni politiche (ma anche esigenze populiste) della Milano di fine secolo in cui fu scritta l'opera, tra gli orizzonti chiusi della piccola borghesia umbertina e le prime timide spinte europeiste.

Francesco Cento

20/4/2016

La foto del servizio è di Francesco Sgueglia.