Lohengrin torna a Bologna
È noto che fu Bologna a ospitare per prima in Italia un'opera di Wagner, nel 1871 (tradotta, come si usava al tempo), e che quell'opera fu Lohengrin. È noto anche che Verdi andò a sentirla in incognito, e non ne formulò un giudizio favorevole (salvo poi spendere parole di elogio per l'autore quando questo morì). Ed è stato proprio per celebrare il centocinquantenario della musica wagneriana in Italia che il Teatro Comunale di Bologna aveva programmato il Lohengrin in apertura di stagione 2022, salvo poi farla slittare come penultimo titolo causa pandemia. Un ritorno gradito, anche indipendentemente dalla ricorrenza, dato che il titolo mancava al Comunale dal 2002 (quando vi furono Daniele Gatti in buca e Daniele Abbado alla regia). L'evento si inserisce in un progetto di più ampio respiro, quello di eseguire le cinque opere di Wagner che a Bologna ebbero la loro prima italiana: progetto che, iniziato col Tristan und Isolde nel 2020, proseguirà nel 2023 con Die fliegende Holländer. Intanto, la recita del 20 novembre 2022, qui commentata, chiude non solo quelle in programma per il Lohengrin, ma anche quelle date in sala Bibiena, almeno per un po': la sede storica del Comunale, infatti, pregevole sia per l'acustica, sia per il magistero architettonico, verrà chiusa e sottoposta a opere di restauro, così si prospetta, fino al 2026. Nel frattempo, ci si trasferisce all'EuropAuditorium per La traviata prima e in Fiera poi, per la nuova stagione.
Non ci si aspetti però il Medioevo fantastico scaturito dalla visione che Wagner dice di aver avuto in un bosco, nelle pause fra una cura termale e l'altra a Marienbad, sfogliando i miti del fascinoso cavaliere del Graal. Ideato nel 1841, il Lohengrin vede la stesura del suo libretto nell'estate del 1845 – l'anno delle cure termali, appunto – e in quella successiva, quando nasce anche l'abbozzo dell'opera, che sarà completata nel 1848. La première avviene a Weimar, il 28 agosto 1850 sotto la direzione di Franz Liszt. Al prato sulla sponda della Schelda, alla rocca e alla cattedrale di Anversa, all'alcova di Elsa e Lohengrin, il regista Luigi De Angelis (che cura anche scene, luci e parte video), coadiuvato dalla drammaturga Chiara Lagani (che firma anche i costumi), con la quale ha fondato la compagnia Fanny & Alexander, sostituisce un'aula di tribunale, per contestualizzare i riferimenti al «giudizio» espressi da Telramund e dal Re nel primo e nel terzo atto, con tanto di toghe per i coristi e di ermellino per il Re, e un anonimo spazio vuoto, con un parallelepipedo alto e stretto a fare ora da balcone, ora da ambone della cattedrale, nel movimentato secondo atto. L'alcova si riduce a un letto basso e quadrato sulla destra del palcoscenico e ai simboli di Lohengrin sulla sinistra, una grande spada sospesa a mezz'aria (come la lancia di Parsifal) e un cigno. Un'attualizzazione che annulla buona parte del fascino delle ambientazioni originali. Wagner è un autore particolare. Le sue opere, quale più, quale meno, si fondano sull'elaborazione di miti, recuperando il modo di fare teatro dei Greci. Un teatro di simboli, con messaggi da veicolare, una catarsi da raggiungere “alla Aristotele”, mediante éleos kai phóbos, pietà e paura. Non vi è spazio per personaggi comuni; le sue sono creature magiche, sovrannaturali, leggendarie; se sono uomini, sono eroi ed eroine: la loro morte è spesso trasfigurazione, un passaggio dalla dimensione terrena – ancorché inventata – a quella mitica. Calare questa dimensione in qualche modo assoluta, nel senso proprio latino, ab-soluta, sciolta, slegata dalla realtà e quindi stagliata in un universo altro, atemporale – calare questa dimensione nella temporalità, significa contestualizzare, laddove il teatro wagneriano generalizza per partito preso, proprio perché usa dei miti; significa deporre l'albatros di Baudelaire sul ponte della nave. E quindi ridicolizzarlo. Già personalmente è una forzatura pensare Lohengrin, immateriale, serafico e idealizzato cavaliere, nella camera da letto con Elsa la prima notte di nozze: se poi lo si fa entrare e uscire dalle quinte laterali, scalzo e in pigiama, a rincorrere la sposina, forse avrebbe preferito tornare al Monsalvato anche se Elsa non avesse posto le fatali domande… Ci ha già pensato Franz con Suppé a scriverne una parodia, il Lohengelb: ma con quale raffinatezza!
De Angelis decide di porre l'accento sul tema del giudizio, portato in scena come già detto con l'aula di tribunale, e sulla dimensione onirica: il cigno che trasporta l'eroe potrebbe anche non essere mai esistito, come asserisce il regista, potrebbe essere un'allucinazione di Elsa, esistere solo nella sua mente, donde i frame di un cigno sull'acqua proiettati sul fondo, dapprima fotogrammi isolati, poi piccole sequenze in movimento: il giudizio, perché Wagner stesso, negli anni di composizione del Lohengrin, era alla ricerca del giudizio (positivo) altrui, in una fase di stenti e di pochi riconoscimenti artistici – in quegli anni, dopo il Rienzi accolto con buon successo, nascono Der fliegende Holländer e Tannhäuser, entrambe senza successo –; il sogno, perché pare che Wagner sognasse molto vividamente, al punto da indurre la moglie Cosima ad appuntarne i sogni in un libro. Lohengrin appare come in sogno a Elsa, è lei il tramite grazie al quale l'eroe si materializza. Forse per questi riferimenti biografici un attore, Andrea Argentieri, impersona Wagner, con tanto di basco, sciarpa e bacchetta, secondo l'iconografia tradizionale, che nel primo atto sogna l'opera, destandosi in mezzo al palcoscenico, intravedendola sullo sfondo di un bosco brumoso, che permane lungo il primo atto, nel secondo la “allestisce” e nel terzo se la gode da una barcaccia, tamburellando con le dita sulle note del preludio. Presenza inutile, in realtà, questa dell'attore: una nota di colore in una produzione sì originale, come nella trovata di accendere le mezze luci in sala quando l'Araldo chiede chi si batterà per Elsa, quasi a voler vedere se ci sia qualcuno tra il pubblico, ma inutilmente lambiccata. Anche perché le attualizzazioni di questo tipo fanno i conti, prima o poi, con stridenti incongruenze: un duello alla spada nel bel mezzo di un processo? Lohengrin che arriva con giacca, pantaloni e scarpe bianche, ma con spada e corno al fianco? Passino ancora il Re in alta uniforme e fascia e Ortrud e Telramund in divisa militare, mentre Elsa, la più credibile, si presenta in un semplice abito chiaro, con calzette alle caviglie, simbolo di purezza e innocenza da scolaretta. Meno azzeccato l'abito nuziale, sopravveste fluorescente per via di led che nel buio hanno ricordato la luminescenza degli abiti di scena al radio di Loïe Fuller (stessa cosa per Lohengrin).
Il côté esecutivo compensa ampiamente le carenze della regia. Martina Welschenbach tratteggia una Elsa dal canto luminoso, pieno, ben proiettato e potente negli acuti, dove non perde di smalto (anzi ne acquista), e in grado di modularsi e farsi dolce là dove occorre. Degna controparte femminile, la Ortrud di Ricarda Merbeth, voce più scura, forse poco meno solida della collega, ma di innegabile fascino maligno: i suoi quattro interventi, il duetto con Telramund all'inizio del secondo atto, in una luce rosso scuro e neon bassi su un palco vuoto fuor che per i due cantanti, ipotetico parcheggio isolato o angusto sottoscala, il duetto con Elsa, l'accusa fuori dalla chiesa e la rivelazione finale sul destino di Gottfried, sono resi con un calibrato gioco di perfidia e furia, con una componente di mellifluità che non guasta nell'irretire l'ingenua Elsa.
Il fronte maschile è dominato dal Telramud di Lucio Gallo, che torna a interpretare il ruolo come vent'anni fa qui al Comunale. Il suo è uno strumento scuro, vibrante, timbrato, che aiuta a tratteggiare, assieme alle doti attoriali, un personaggio convincente: monolitico, come si vogliono i cattivi in questi casi, non dotati di evoluzione psicologica ma iconici nel perseguire il loro intento. Vi si può solo appuntare una certa immobilità di espressione, una tendenza ad aggredire vocalmente con un canto sempre irato. Bene anche per l'Heinrich der Vogler di Albert Dohmen, quasi coperto dall'orchestra nel suo primo intervento, in grado di poi di assolvere più che degnamente al suo ruolo nel prosieguo. Unico neo, ma vistoso, proprio il Lohengrin di Vincent Wolfsteiner, che, se ci pensiamo, è il personaggio che canta meno, ma attorno cui ruota l'intera opera. L'inizio, il ringraziamento al cigno, non è dei migliori: nel tentativo di esibire un canto dolce e nobile assieme, si barcamena in alcune incertezze, che tornano alla fine, nel monologo finale In fernem Land (privo degli ultimi cinquantasei versi, come volle Wagner); per il resto, a fronte di alcune emissioni ben portate e ben proiettate, alterna passaggi riusciti ad altri manchevoli di espressione e vigoria, rendendola nell'insieme una prestazione di valore altalenante. Adeguato l'Araldo di Lukas Zeman, che si disimpegna dignitosamente, pur senza eccellere in autorevolezza. Il cast si completa di Manuel Pierattelli, Pietro Picone, Simon Schnorr e Victor Shevchenko (i quattro Cavalieri), e di Francesca Micarelli, Maria Cristina Bellantuono, Eleonora Filipponi e Alena Sautier (i quattro Paggi, qui quattro Dame). Federico Simone Cetera e Alessandro Antonino si alternano nell'impersonare il piccolo Gottfried, vestito come il Re, sua copia in miniatura, che ora accompagna Argentieri-Wagner, ora traina il cigno giocattolo traversando il palcoscenico, infine presta giuramento davanti al Re quando, a fine terzo atto, riacquista forma umana.
Per l'occasione, al Coro della Casa, istruito da Gea Garatti Ansini, si aggiunge il Coro del Teatro Accademico Nazionale dell'Opera e balletto ucraino Taras Shevchenko (maestro: Bogdan Plish). L'insieme forma una compagine ben amalgamata, dal sicuro impatto sonoro, in un'opera, come questa (che è la più corale tra quelle di Wagner) dove il coro è quasi un personaggio.
Domina e coordina il tutto Asher Fisch. Alla testa dell'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, in gran spolvero, egli ha il pregio di bilanciare la corposa domanda strumentale wagneriana con le voci, non solo accompagnandole senza prevaricarle (tranne in rari casi), ma esibendo tornitura di frasi, legature nette (molto ben articolato il Preludio al terzo atto, nel motto ricorsivo degli ottoni, corni prima, tromboni poi) e morbidezza di impasto timbrico (nei legni massimamente). Una direzione insomma equilibrata, forse un po' rigida nei tempi – banditi i cascami più svenevoli dai Preludi, condotti, soprattutto il primo, senza indugi né attardamenti nelle sue pur diafane pagine che meriterebbero un po' più di levità e lentezza – ma nel complesso di pregio.
Fragorosi, prolungati e convinti gli applausi alla fine, liberatori e beneauguranti per la riapertura del teatro, anticipatori dei fasti futuri: un arrivederci gettato a ponte sui prossimi spettacoli.
Christian Speranza
22/11/2022
Le foto del servizio sono di Andrea Renzi.
|