Mozart, Mahler e Conlon
Al via la stagione 2018/2019 dell'Orchestra Sinfonica della Rai (OSN), come sempre dalla sede torinese dell'Auditorium Arturo Toscanini. Venerdì 19 ottobre 2018, guidata dal suo Direttore principale James Conlon, la prestigiosa orchestra ha inaugurato una rassegna che si annuncia ricca di interessanti appuntamenti tanto per neofiti quanto per palati più esigenti. Il programma ha permesso di esibire tutte le sue potenzialità, vedendola impegnata con un brano per grande orchestra e con uno dall'organico più contenuto. Una scelta che non fa che confermare il valore e la qualità di questa compagine orchestrale.
Si comincia con la Sinfonia n°34 in do maggiore KV 338 di Wolfgang Amadeus Mozart. Datata 29 agosto 1780, venne scritta al ritorno dall'ultimo viaggio a Parigi (e prima di quello per Monaco), una tournée sfortunata durante la quale l'ormai ventiquattrenne Mozart non aveva potuto più sfruttare il fascino del bambino prodigio. Abbandonata l'idea di trovare impiego stabile in terra francese, e persa proprio a Parigi la madre il 3 luglio 1778, tornò a Salisburgo, ricominciando a lavorare per il principe arcivescovo Colloredo. La Sinfonia KV 338 vide la luce in questo frangente di composizioni scritte per feste e svaghi di corte, tagliata ancora in tre, secondo il modello precedente al canone haydniano. Ma, nella sua sonorità squillante, con l'organico consueto di archi e fiati “a due” arricchito da trombe e timpani, nella baldanza delle sue idee musicali, traluce la mano di quel giovane geniale che morde il freno e che l'anno dopo prenderà il volo (quasi letteralmente: la famosa pedata nelle terga da parte del conte Arco) trasferendosi a Vienna per iniziare la sua carriera da libero professionista, con tutti i noti alti e i bassi che seguirono. Appena arrivato a Vienna, riprese in mano la Sinfonia KV 338 quale biglietto da visita, come il meglio prodotto fino a quel momento, e la corredò di un minuetto alla moda per darle la veste definitiva in quattro movimenti, un lavoro al confine tra la produzione salisburghese e quella più matura degli anni di Vienna.
L'ultima delle sinfonie salisburghesi e la prima di quelle viennesi. Ed è questo il punto di contatto con la seconda parte del programma, la Sinfonia n°1 in re maggiore di Gustav Mahler: la prima vera grande opera di un uomo che si sentì per tutta la vita compositore e che venne apprezzato soprattutto come direttore. Un'opera complessa, ambiziosa, densa di contenuti, di luci e di ombre, presentata inizialmente con tanto di programma didascalico (sulla scia di quella “musica a programma” ai cui primordi va collocata la Symphonie fantastique Op.14 di Berlioz, in cinque parti e con un titolo per ogni movimento, e che in ambito tedesco prosegue col filone Liszt-Wagner), alla quale sicuramente l'autore teneva in particolare, se la ritoccò a più riprese per oltre vent'anni, dal 1884, quando ultimò la prima versione, guarda caso, in cinque movimenti (il secondo, intitolato Blumine, verrà espunto successivamente), al 1906, quando licenziò quella definitiva. Un labor limæ paziente, culminato in una delle sinfonie più popolari della sua produzione, conosciuta anche come “Titan”, dall'omonimo romanzo di Jean-Paul Richter al quale, nella versione di Amburgo del 1893, disse di essersi ispirato mettendo in musica la parabola esistenziale di un eroe. Ma per quanto abbondante fosse stato l'impegno profuso, le critiche giunsero impietose e stroncanti ad ogni nuova versione. Sulla rivista Bolond Istók del 24/11/1889, in occasione della prima assoluta avvenuta quattro giorni prima a Budapest, comparve una caricatura in cui Mahler, bacchetta in mano in gesto da direttore, soffia in un enorme corno dal quale fuoriescono conigli, galline e ogni sorta di animale, mentre il pubblico si tappa le orecchie con le mani, inorridito. Il riferimento è al terzo movimento, una marcia funebre grottesca basata sul tema di Fra' Martino campanaro volta in minore e associata alla celebre xilografia di Moritz von Schwind dove viene ritratto un cacciatore morto, ucciso dalle sue stesse prede. Ma il tempo, come sempre, è maestro: e se adesso riconosciamo Mahler come uno dei più visionari e audaci compositori del primo Novecento, è anche grazie a questo purgatorio di critiche, arra del paradiso di gloria che segue ancora oggi.
Due brani che occorre dirigere con differente spirito e ai quali invece Conlon si approccia in modo sostanzialmente simile: e cioè con una gravitas non esente da un certo fascino, che però si fatica ad accettare come adeguato al contesto. I due Allegro vivace che aprono e chiudono la Sinfonia mozartiana vengono trattati più come degli Allegro maestoso, tanto nella dinamica, che è parsa in qualche modo trattenuta, mentre le rapinose terzine della conclusione, in tempo di siciliana in 6/8, suggerirebbero un metronomo più alto e una briglia più sciolta, quanto nell'espressione, ammantata di una solennità che Mozart fa ben capire quando vuole (Messa in do minore KV 427) e quando no. L'Andante di molto centrale, per contro, trae beneficio da questa direzione. Conlon scandaglia la profondità a tratti malinconica di questo brano che nulla ha più di lezioso, tanto è già proiettato verso i futuri Adagi viennesi, evidenziandone tutta la bellezza e la delicata trama, tutta affidata agli archi.
Approccio vincente invece per il “Titan”: il lento, progressivo emergere del tema principale, all'inizio del primo movimento, da quella fissità degli archi spinti nel registro sovracuto (reminiscenza del Preludio del Lohengrin wagneriano?), è reso in modo affascinante, seguito da un altrettanto affascinante sviluppo, dove la bacchetta di Conlon cesella l'esecuzione addentrandosi in quei Naturlaute che tra flauti e clarinetti rimandano a richiami di uccelli. Del pari ben fatto il lavoro di scavo sulla «Marcia funebre alla maniera di Callot», dove le entrate a canone degli strumenti sono ben distinguibili. Eppure si resta dubbiosi circa l'effettiva resa delle parti più distese, più melodiche, tanto nel primo, quanto nel secondo movimento, e soprattutto nel finale, dove l'esplosione di suoni e le volate (o folate) demoniache degli archi, su cui si stagliano i brevi motti mordaci degli ottoni, hanno un che di trattenuto, di non lasciato andare; una «negazione dell'apice», per dirla alla Wagner. Il resto del lungo e articolato movimento, che richiama il primo, congiungendosi idealmente in una forma ciclica, trapassa come visioni di sogno, cartoline sfocate di un'epoca felice, fino alla perorazione conclusiva degli ottoni (curiosamente somigliantissima alla pubblicità di una nota marca di latticini!), che corona degnamente l'esecuzione, con gli strumentisti che, com'è quasi prassi, si alzano in piedi.
Gli strumentisti, si diceva. L'OSN. Meravigliosa come sempre, soprattutto la sezione degli archi, uniti, affiatati e precisi. Un appunto è tuttavia doveroso. Punteggiano l'intera esecuzione del “Titan” piccole ma non tacibili imprecisioni degli ottoni, da sempre croce e delizia di questa orchestra. Seppur opportunamente morbido e pastoso, (in certi passaggi ha ricordato il Bruckner della “Romantica”), il suono dei corni risulta essere talvolta difettoso nell'emissione. Lo stesso dicasi anche per le trombe. Si tratta in ogni caso di particolari di poco o punto rilievo che non inficiano la qualità dell'esecuzione, indiscutibilmente di livello.
Ma c'è un altro particolare che lega Mozart e Mahler, e non è solo il titolo che Rodin diede al busto in marmo che scolpì con le fattezze di Mahler e che chiamò Mozart. Le ultime parole di Mahler furono: «Mozartl! Mozartl!», al vezzeggiativo. Forse, negli ultimi istanti, davanti ai suoi occhi, il compositore simbolo della musica sublime e immortale gli tese la mano, chiamandolo a sé nella sfera dei grandi.
Christian Speranza
27/10/2018
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