Macías tuttofare (e gli riesce bene!)
Per i discepoli d'Euterpe, il 29 novembre è una data bifronte, un po' come il 27 gennaio: nel 1643 moriva Monteverdi, nel 1797 nasceva Donizetti e nel 1924 moriva Puccini; il bilancio nati/morti depone tristemente a favore dei secondi: quest'anno in particolare, tuttavia, il lutto si tramuta in un'occasione in più per far musica, poiché ricorre il centenario esatto della scomparsa di Puccini, culmine di tutto l'anno pucciniano.
Ma se al Donizetti di Bergamo risuonano le arie più famose dell'Anna Bolena sotto Riccardo Frizza, a Milano, a poca distanza dalla Scala, dove il previsto “concerto dei cent'anni” di Chailly si riduce a un recital per canto e pianoforte causa sciopero, echeggiano note austriache: quelle di Mozart e Bruckner. Sì, perché, allargando il ventaglio dei festeggiati che fanno cifra tonda, nel 2024 cadono i bicentenari della nascita di Anton Bruckner e Bed rich Smetana (1824-2024), oltre al centocinquantenario di Arnold Schönberg (1874-2024).
Non sono molti gli enti musicali che si sono ricordati del maestro di scuola di Ansfelden, che inizia a comporre adolescente in seno ai preti di Sankt Florian, presso Linz, ma che si afferma solo intorno ai sessant'anni con la Settima Sinfonia, in una Vienna che bene o male gli rimarrà sempre ostile o indifferente. E quand'anche sia stato fatto, la scelta è ricaduta quasi sempre, con l'eccezione del Comunale di Bologna, su Quarta, Settima e Ottava, le tre più famose.
A osare coraggiosamente è stata l'Orchestra Sinfonica di Milano, che all'Auditorium Fondazione Cariplo di Largo Mahler propone la Sinfonia nº1 in do minore WAB 101, nella cosiddetta “Wiener Fassung” del 1891, probabilmente per la prima volta nella sua storia (nel programma non sono riportate esecuzioni precedenti). Per nevrotica insicurezza o mania di perfezionismo (d'altronde era della Vergine, nato il 4 settembre…), Bruckner mise mano molte volte alle stesse partiture, stendendo diverse versioni della stessa Sinfonia in cicli di revisioni alternati a intensi cicli produttivi: e non è detto che la Fassung letzter Hand (letteralmente la “versione di ultima mano”) vada ad annullare le precedenti. La Prima non fa eccezione. Nata nel 1865-66, subisce lievi modifiche fino a ridosso della prima esecuzione da lui diretta (09/05/1868, Redoutensaal dello Stadttheater di Linz); questa prima “Linzer Fassung” viene rivista una prima volta nel 1877, nel pieno rifacimento della Terza, e una seconda volta nel 1884, a ridosso della Settima e del Te Deum. Ma dopo il secondo ciclo di revisioni, innescato dal rifiuto di Hermann Levi di eseguire la prima versione dell' Ottava, ecco rimettere mano a «das kecke Beserl», alla «ragazza sfrontata», come la chiamava lui, rivedendola tra il 1890 e il 1891; ne viene fuori una vera e propria seconda versione, che dedicherà all'Università di Vienna come ringraziamento per la laurea honoris causa, riconoscimento di cui si sentiva in difetto dopo averlo visto conferire anni prima a Brahms. Secondo Alberto Fassone, «la versione viennese della Sinfonia non incide in profondità nel tessuto compositivo, ma si limita ad “addomesticare” la novità del linguaggio (nella strumentazione e nell'armonia) con ritocchi che vanno interpretati come un atto di prudenza e di “riguardo” nei confronti del pubblico». In questa veste venne diretta da Hans Richter il 13/12/1891.
E in questa veste la si ascolta diretta da Lucas Macías nella prima delle due esecuzioni in programma (segue la replica di domenica 1 dicembre). Di formazione, Macías è oboista, anzi, «uno degli oboisti migliori al mondo», essendo stato primo oboe della Royal Concertgebow Orchestra e della Lucerne Festival Orchestra. Ma da una decina d'anni si dedica con profitto anche alla direzione, avendo debuttato al Teatro Colón di Buenos Aires nel 2014. È questo l'altro trait d'union della serata, oltre alla provenienza austriaca dei due autori eseguiti. Nella prima parte del programma Macías si esibisce infatti come solista nel Concerto per oboe e orchestra in do maggiore KV 314 di Mozart, pagina scritta a ridosso del viaggio italiano del 1777 e dedicata all'oboista bergamasco Giuseppe Ferlendis, alle dipendenze del principe arcivescovo Colloredo di Salisburgo. Rarità nella rarità, perché normalmente questo concerto è eseguito, trasposto in re maggiore, nella versione per flauto che Mozart rielaborò fra il 1777 e il 1778 per Ferdinand Nikolaus De Jean di Mannheim (la versione per oboe è stata ricostruita da alcuni frammenti conservati al Mozarteum).
Con l'orchestra ridotta ad archi, due corni e due oboi, e che data la sua valenza può tranquillamente suonare in autonomia, Macías ha tutto l'agio di brillare nella sua parte solistica, che esegue con intenzione, perizia, garbo ed eleganza. Fortuna ha voluto, grazie a una generosa vicina di posto, che potessi seguire il Concerto sulla partitura: si è potuta constatare così tutta l'aderenza al dettato mozartiano, ma sfatando il mito che non si possano trovare sfumature di personalità: la cadenza del Rondò, ad esempio, richiama, credo volutamente, l'Andante del Concerto KV 467, mentre a livello direttoriale viene dato un accattivante rilievo agli interludi orchestrali dell'Allegro aperto, che nelle loro movenze quasi teatrali guardano già all'operista maturo della triade dapontiana. Una lettura convincente e raffinata come il fuori programma, l'intenso e accorato Adagio per oboe e archi che nell'Oratorio di Pasqua BWV 249 segue da presso la sinfonia d'apertura, nella tonalità bachiana dolente per antonomasia, si minore. Le qualità direttoriali di Macías trovano un felice connubio con l'Orchestra Sinfonica di Milano, rinsanguata da legni, ottoni e percussioni, e con la «kecke Beserl» di Bruckner. L'aver anche qui seguito sulla partitura ha permesso di collezionare una serie di annotazioni che sarebbe eccessivo riportare in toto. Mi scuseranno Bruckner e Macías se non potrò evidenziare dell'uno tutti i preziosismi già presenti nella prima sinfonia del suo corpus (anche se non la prima in ordine cronologico) e dell'altro tutta l'abilità nel portarli alla luce, anzi all'orecchio. Complessivamente ne viene data una visione energica, drammatica, percorsa da fremiti e da un'intensa tensione cui contribuisce, almeno per l'Allegro d'apertura, un'agogica insolitamente veloce. I ribattuti agli archi gravi con cui inizia fanno già pensare all'incipit della Sesta di Mahler, i rilievi interni dei fiati che durante il movimento anticipano il ritmo del tema del Finale sono messi intelligentemente in rilievo, soprattutto pensando a un compositore che considerava il Finale come télos dell'intero percorso sinfonico (non per nulla, durante la revisione, Bruckner è partito dal revisionare l'ultimo movimento, risalendo al primo). Significativa anche la messa in luce della fanfara di trombe verso la fine (batt. 301-316), in una prospettiva autenticamente filologica, anticipo di quella analoga al termine del primo movimento dell'Ottava. Grande attenzione è riservata alla trasparente scrittura degli archi, in particolare a quella pluristratificata del Gesangsperiode (secondo gruppo tematico), in cui i violini primi prevalgono nettamente sui secondi, senza però eclissarne il loro portato contrappuntistico, caratteristica che si deliba anche meglio nell'Adagio, dove – lettera C – i tremoli dei secondi si avvertono come fruscii lievissimi aleggianti intorno alla linea dei primi e le complesse poliritmie si diluiscono in un discorso senza intoppi. Nella sezione centrale in 3/4, poi (la struttura di questo Adagio è ancora del tipo A-B-A, a scrigno: i grandi Adagi in cinque-sei sezioni a Rondò-Variazioni sono ancora di là da venire), si apprezzano le evidenze concesse ai soli di flauto, clarinetto e fagotto: a dispetto di coloro che dipingono Bruckner come la personificazione della farragine sonora, le sue pagine offrono anche diversi passaggi quasi cameristici.
Troppi sarebbero gli encomi per la Filarmonica. Basti un accenno alle leggere volatine dei flauti nell'Allegro, riprese dagli archi nel terzo gruppo tematico, anch'essi leggeri e compatti e che, sotto fascinazione diretta dell'Ouverture del Tannhäuser, sostengono i tromboni (da lettera J in poi). Un plauso speciale va ai corni, sia nell'Adagio, densi e brumosi in quel lento sbozzolarsi del primo tema assieme agli archi (che procede a tentoni, anche “incappando” in sbagli armonici e dissonanze già quasi pre-dodecafoniche), sia nello Scherzo, i cui incisi si avvantaggiano della riscrittura del '91; sempre nello Scherzo, ai tromboni viene giustamente concesso di emergere nelle loro scale cromatiche discendenti, belle scandite, che già preludono a quelle analoghe dello Scherzo della Settima. Altra analogia è il solo di timpani che collega la fine del Trio con la ripresa dello Scherzo, rendendo così le due parti non meccanicamente giustapposte, ma organicamente fluenti l'una nell'altra. Bene anche qui Macías nella cura riservata ai crescendo, ai colori orchestrali e nel rendere bene l'incalzo febbrile del movimento, in questo coadiuvato da un'ottima intesa con gli archi. Ad analizzarlo bene, c'è già tutto il Bruckner maturo, o quasi, in questa Prima, e lui lo sapeva bene, dato che la teneva in considerazione. Anche il Finale, qui reso non tanto energico quanto grandioso, nel suo snodarsi apparentemente in modo casuale, in realtà secondo una forma-sonata con ripresa abbreviata e grande coda conclusiva, è ricco di contrasti e luci e ombre, qui evidenziati e dosati con mano sicura da una bacchetta che nella sua precisione rifugge da ridondanti pletorismi, lasciando che i tutti orchestrali parlino da sé. La coda conduce da un lato la sinfonia a trionfare in un affermativo do maggiore, che ribalta le nebbie e l'ambiguità tonale dell'inizio, dall'altro il concerto a terminare nel più vivo entusiasmo di un pubblico insolitamente poco numeroso. E questo un po' fa male. Che davvero ancora oggi “nessuno voglia saperne di lui”, come disse sconsolato alla fine della disastrosa esecuzione della Terza del 1877?
Christian Speranza
3/12/2024
Le foto del servizio sono di Angelica Concari.
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