RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Stile

Tutto parte forse da un'intuizione, una visione d'insieme, una luce particolare. Ma quando si ha l'intuizione, tutto prende forma. Guardando un quadro di Van Gogh, per esempio, o di Toulouse Lautrec, o di altri pittori iconici, conoscendo un minimo il loro stile non si potrà fare a meno di dire: è un Van Gogh, è un Toulouse Lautrec. E, piacciano o meno, diventano riconoscibili. Perché è questo che fa la differenza: lo stile. Quel paesaggio, quell'interno, quella figura, io li propongo così, non come sono nella realtà, ma come li vedo io, come io li sento, perché quello è il mio stile .

Simili considerazioni possono essere applicate alla direzione d'orchestra, mettendo in luce una volta di più che le note su carta sarebbero lettera morta senza la personalità dell'interprete che le filtra, le fa sue e le restituisce secondo la visione che ne ha avuta, secondo il suo stile. Una riflessione forse inane, ma riproposta con forza dall'interpretazione che Pablo Heras-Casado ha fornito durante il concerto del primo dicembre 2022 alla guida dell'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN). Presso l'auditorium Arturo Toscanini di Torino si è assistito all'esecuzione di un programma variegato: il Prélude à l'après-midi d'un faune, L 87, di Claude Debussy, il Concerto per violino e orchestra in re maggiore di Igor Stravinskij e la Sinfonia nº1 in re maggiore di Gustav Mahler.

Programma composito, nel quale non si deve per forza riconoscere un filo conduttore, se non quello di presentare alcuni degli sperimentalismi tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Il Prélude è, quasi per definizione, l'emblema dell'“impressionismo” orchestrale, nato dal connubio tra L'après-midi d'un faune di Mallarmé, del 1876, e Debussy, che lo mette in musica su richiesta del poeta stesso. Ai primi del 1891 il progetto ha la forma embrionale di un trittico preludio-interludio-parafrasi finale, ma di fatto il secondo e il terzo pezzo non vedranno mai la luce; in compenso, Debussy, cesella al pianoforte il Prèlude per altri due anni e termina di orchestrarlo nel 1894.

Con il Concerto facciamo un salto in avanti di quasi cinquant'anni, proiettandoci nel pieno della fase neoclassica di Stravinskij: movimenti definiti Toccata, Aria I, Aria II e Capriccio non si sentivano da duecento anni. Ma è così che li chiama Stravinskij in una pagina che, pur con tutte le modernità della sua scrittura, ripulita dalle arditezze armonico-timbriche dei tempi del Sacre (1913), diventa un omaggio a Bach. Agli inizi del 1931 Blair Fairchild chiede a Stravinskij un concerto per il suo pupillo, il violinista Samuel Dushkin: il compositore accetta, terminandolo in pochi mesi. Dushkin stesso, diretto da Stravinskij, lo esegue per la prima volta a Berlino il 23 ottobre dello stesso anno.

E infine Mahler alle prese con la sua prima sinfonia (più o meno negli stessi anni in cui Debussy attende al Prèlude), che compone nel 1888 mentre è direttore a Budapest, in parte rielaborando i suoi precedenti Lieder eines fahrenden Gesellen del 1884. Un'accoglienza disastrosa lo induce a rielaborarla, e, nel 1893, ne appronta la seconda versione. Altra accoglienza disastrosa, altra revisione: terza e definitiva versione nel 1896. Ma ci vorranno ancora molti anni per arrivare agli ultimi ritocchi: nel 1909! Che abbia avuto vita facile, non si può dire, questa sinfonia, che peraltro parte con l'essere prima un poema sinfonico in cinque movimenti, poi un “poema sinfonico in forma di sinfonia”, col sottotitolo di Titano, in riferimento all'omonimo romanzo di Jean Paul (con tanto di programma dettagliato), poi finalmente una sinfonia vera e propria, in quattro movimenti – via il Blumine, il “pezzo dei fiori”, un Andante originariamente in seconda posizione, passando dalla seconda alla terza versione –: per questo Mahler la definì il suo “Schmerzkind”, il suo “figlio difficile”. Ma è l'inizio del suo lascito sinfonico, che giungerà agli ultimi esiti del sinfonismo tardottocentesco dagli organici smisurati e dalle estreme, laceranti confessioni che si esprimono, al contrario delle tendenze debussyane e stravinskijane di questa sera, «per via di porre», cioè di aggiungere, secondo Michelangelo, anziché «per forza di levare».

Riassumendo in un solo aggettivo, Heras-Casado fornisce un'interpretazione unitaria: si approccia ai tre brani, diversissimi, come se stesse dirigendo la stessa cosa. Giusto? Sbagliato? Di certo è lampante uno stile, un'impronta unica, un'impressione di levità che aleggia su tutto. E, se questa levità, questa aerea smaterializzazione del suono può in certo modo convincere nel Prèlude , la cui musica, rispecchiando il testo, evoca la blanda mollezza del fauno al risveglio nella calura estiva (non priva di una certa compiaciuta sensualità nel ricordare le conquiste amorose delle ninfe), lo stesso taglio interpretativo si addice molto meno al Concerto di Stravinskij e ancor meno al Titano: le sonorità traslucide, eteree, sono perfette per le delicatezze e le raffinate sfumature timbriche di Debussy; ma Stravinskij ricerca un suono più “barocco”, sebbene incrinato dalle dissonanze tipiche del Novecento, a partire dal tricordo re-mi-la distribuito su due ottave e mezza, che nel Settecento non sarebbe stato lontanamente pensabile (sebbene Bach abbia – sadicamente per il violinista! – abbondato addirittura di tetracordi nella sua produzione per violino solista). Sulla resa della parte solistica non si può che restare ammirati, quando a eseguirla è un fuoriclasse come Zimmermann, che sul “Lady Inchiquin” di Stradivari (1711) si produce in una performance tersa e levigata, con apollineo, snobistico dispregio delle difficoltà tecniche, di cui non si rileva traccia – la calma superficie al di sotto della quale riposano anni di studio e molto talento –, nemmeno quando infioretta il fuori programma, prevedibilmente bachiano (la Fuga dalla Sonata per violino solo nº1 in sol minore BWV 1001), di quegli abbellimenti non scritti che tanto peso improvvisativo hanno nelle esecuzioni barocche ad hoc e che – in un pezzo già difficile di suo, dall'ostica scrittura contrappuntistica, realizzata su uno strumento per sua natura monodico e che Bach costringe all'illusione della polifonia col gioco dei piano e dei forte – tanti esecutori arrivano a malapena a eseguire così com'è scritto!

Convince poco, e convince solo in virtù della smaccata controtendenza stilistica, più curiosità che aderenza alla partitura, anche la versione che Heras-Casado propone del Titano. Ancora quel senso di mollezza, di levità, tanto nei tempi quanto nelle dinamiche e nella resa complessiva, quell'indugiare in sonorità ialine che si confanno alle rarefazioni del primo movimento, su quelle lunghe note tenute degli archi, su sette ottave, in un più che pianissimo davvero ai limiti dell'udibile, straordinario, e ai passaggi dello sviluppo in cui viene ripreso il medesimo schema narrativo, quello che Mahler prescrive di eseguire wie ein Naturlaute, come un suono di natura; ma il resto, trattato in questo modo, perde di mordente. Restiamo nel primo movimento: il testo del secondo Lied del gruppo dei Gesellen, da cui Mahler trae il tema principale, tratta di un'incantevole passeggiata nella natura, col sole che splende e la natura che ride (salvo poi convertirsi in una riflessione più malinconica, omessa nella sinfonia): logico quindi rapportarsi alla sua versione puramente strumentale, il primo movimento del Titano, appunto, come a una passeggiata, rilassata e tranquilla, di cui si fa portavoce l'andamento stesso del pezzo: l'introduzione rende bene il senso di mistero, di attesa, in questo attenendosi all'indicazione mahleriana Langsam, Schleppend (Lento, trascinato). Sonorità pastose e calde caratterizzano l'avviamento ai violoncelli del tema principale (l'inizio della passeggiata) e il tutto prosegue con placidità fino alla morbida ripresa del tema e oltre, quando il finale viene sottoposto a un'accelerazione – immotivata – quale unico accenno di vivacizzazione; ma scandagliandolo, si scopre che c'è altro, in questo movimento, oltre al pervasivo clima di distensione voluto da Heras-Casado: ci sono ombre che fremono, momenti oscuri quanto fugaci, e veri e propri slanci di gioia, qui raffrenati in nome di un equilibrio poco condivisibile. Anche il secondo movimento contravviene alla assodata pratica direttoriale di calcare la mano sul carattere rustico, al limite della ruvidezza, dell'inciso dei bassi che dà il passo di tre quarti da Ländler austriaco, cugino campagnolo del più affettato valzer cittadino. E chi dice che una danza contadina non debba essere aggraziata?, sembra suggerire questa lettura: e allora ecco un secondo movimento che del Vigorosamente mosso, ma non troppo presto respinge il vigorosamente e accoglie il mosso: un tempo veloce, saltellante, leggero – d'altro canto il titolo originario di questo movimento era A gonfie vele … Si procede poi con il più enigmatico e polimorfico dei movimenti, il terzo, quello che scandalizzò maggiormente i contemporanei, che inizia col famoso canone sul Bruder Jakob, il nostro Fra' Martino, volto in minore, ma prosegue con accenni di musica klezmer, marcette “alla turca” con piatti e grancassa, maliosità da tango, financo quasi di valzer alla Cajkovskij, che Mahler aveva conosciuto proprio negli anni di composizione del Titano, e altro ancora: purtroppo, anche qui sembra di assistere a una sfocata visione dietro un vetro smerigliato, tutto appiattito e senza chiaroscuri. Stesso discorso per il Finale, il movimento più lungo e dall'andamento più tortuoso, dove la difficoltà è semmai quella di raffrenare la fantasia nel far emergere i contrasti, tanti ce ne sono. Il fluviale movimento conclusivo, che nella sua piena non si scorda di travolgere detriti del primo e di continuare a elaborarli, parte con una roboante esplosione a piena orchestra e con tre-quattro minuti di musica infuocata: almeno nelle intenzioni di Mahler. Per essere «il grido di un cuore ferito», stando alle sue parole, lo è: ma, come dire… pare che soffra poco... in questa interpretazione, anche qui volta a limare gli spigoli, a smussare gli angoli, a uniformare i colori. Le dinamiche sono piatte, non coinvolgono, non emozionano. E ci provano anche, a emozionare, nelle fanfare che inframmezzano e chiudono il movimento, in questo già preannunciando il Finale della Quinta: ma senza riuscirci davvero. Peccato: un'occasione sprecata in nome dello stile.

Christian Speranza

23/12/2022