A tutto Dvorák
Ancora una volta la piazza torinese ha offerto una serata dedicata ad un solo autore, per focalizzarne lo stile e metterne in luce composizioni non frequentate dal repertorio. Dopo il Brahms del 26/04 all'Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto, giovedì 05/05/2016 (con replica venerdì 06/05), per il penultimo appuntamento stagionale dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) all'Auditorium Arturo Toscanini, è toccato ad Antonín Dvorák, il compositore ceco che, con Smetana, ha contribuito più di tutti ad esaltare le radici popolari della sua terra, partecipando a quel diffuso senso nazionalistico che pervade l'Ottocento e che, trovando un fondamento teorico-letterario nelle teorie sulla canzone popolare di Herder, Goehte e dei fratelli Grimm, parte dalle Mazurche di Chopin e dalle Rapsodie ungheresi di Liszt per arrivare all'etnomusicologia quasi scientifica di Bartók e Kodály. Ma, mentre Smetana risultò più attratto dalla dimensione epica della sua terra (nei poemi sinfonici Vyšehrad e Šárka rivivono un castello nel racconto di un aedo e la vendetta sanguinaria di un'eroina mitologica), Dvorák non disdegnò “sporcarsi le mani” con la musica contadina (Danze slave Op. 46 e Op. 72, sebbene non manchino anche in Dvorák i lavori a scoperto richiamo mitico-epico alla Smetana: basti pensare al Vodník Op. 107 e alla Strega di mezzogiorno Op. 108).
L'Ouverture da concerto Karneval Op. 92, per esempio, pone in musica tutto lo spirito e la voglia di vivere di un villaggio rurale in festa, colto, secondo le parole dell'autore, con gli occhi, anzi, con le orecchie, di un viandante che vi giunga al crepuscolo. È la seconda di un trittico di ouvertures scritte nel 1891 che inizialmente dovevano intitolarsi Natura, Vita e Amore e dedicate all'Università di Praga come ringraziamento per la laurea ad honorem conferitagli proprio quell'anno.
Ed è proprio con Karneval che si apre il concerto. Sul podio un James Conlon pronto, dalla prossima stagione, ad assumere il ruolo di direttore principale dell'OSN, succedendo a Juraj Valcuha. Un'esplosione di suono, un impeto vitalistico prende vita sotto la sua bacchetta all'attacco del brano, che si gonfia e si rinforza all'avvio della riesposizione (l'Ouverture è organizzata in forma-sonata), mentre concede il respiro della melodia nell'oasi incantata al centro dello sviluppo, in corrispondenza degli assoli di corno inglese, flauto, clarinetto e violino solo. Pervade tutta l'esecuzione un'entusiastica ed autentica “gioia esecutiva”, una voglia di far bene ottimo presagio per la futura stagione concertistica.
La serata è proseguita con il Concerto per violino e orchestra in la minore Op. 53, del 1879-82, opera in cui, più che altrove, emerge la matrice violinistica di Dvorák. È da notare un fatto curioso: il dedicatario di questo Concerto fu Joseph Joachim, lo stesso straordinario violinista che, appena l'anno prima, nel 1878, si era visto dedicare da Brahms il suo Concerto Op. 77. Ma Brahms, pianista e non violinista di formazione, dovette ricorrere ai consigli e ai suggerimenti di Joachim stesso per stendere una parte adatta alla scrittura violinistica. Esattamente il contrario era successo invece con il Concerto per pianoforte Op. 33 (1876) di Dvorák, il quale, di formazione violinistica, si rese colpevole di una delle scritture più difficili e pianisticamente più scomode della storia: Leslie Howard, che incise l' opera omnia per pianoforte di Liszt, affermò che in tutta la produzione lisztiana non c'è nulla che si avvicini alle difficoltà del Concerto di Dvorák! Si tratta anche forse di diverse sensibilità. Dvorák si trova più a suo agio col violino che con la tastiera, e per esso compone un concerto pieno di pathos, di trasporto, in cui la vena melodica è spontanea e trabocca oltre i confini della forma tràdita, congiungendo il primo movimento al secondo in un fluire unico di note, per poi aggiungere il terzo movimento: e il violino si conferma lo strumento più adatto ad esprimere le idee melodiche qui esposte e sviluppate, proprio come le idee lisztiane nascono per il pianoforte e muoiono con il pianoforte.
Ospite per la prima volta dell'OSN, la solista coreana Jennifer Koh, naturalizzata americana, offre, assieme a Conlon, un'interpretazione che su questo pathos fa leva per giungere ai risultati espressivi qui riportati. Il tempo assunto per il primo movimento, un Allegro, ma non troppo, pone l'accento sul “ ma non troppo ”, moderando l'andamento e soprattutto l'impeto, che si differenzia nettamente dall'interpretazione data a Karneval. Meno impeto, quindi, sebbene la tensione drammatica, la “temperatura emotiva”, possa essere sufficiente per osare di più (si confronti ad esempio la lettura più infuocata di Oistrakh/Kondrašin). L'accento è posto – più che sulla drammaticità – sul lirismo, che pure abbonda per tutto il Concerto. È dato ampio spazio alla melodia, slargata nei tempi, per farla meglio gustare, e nelle turgide volute del solista. Il virtuosismo è qui subordinato alla cantabilità, benché non siano omesse rustichezze che fanno pensare al Brahms più sincero. Con un'impostazione del genere, a beneficiarne maggiormente è stato il secondo movimento, l'Adagio, ma non troppo, quasi una tenera ninna nanna per l'anima (di cui si avverte spesso, forse troppo, il bisogno…). Quasi vivaldiano è stato invece l'attacco del terzo movimento, Allegro giocoso, ma non troppo, spontaneo e sorridente, in cui il controllo e la moderazione della condotta ne hanno sacrificato in parte l'esprit, depotenziandone l'entusiasmo.
Jennifer Koh ha svettato costantemente sull'orchestra con un suono sempre pulito e netto, anche nei passaggi più convulsi in cui in l'attenzione è stata attratta dal mobile (e simpatico) caschetto corvino! A conclusione del Concerto ha poi concesso due encore: la Giga dalla Partita per violino solo n ° 3 in mi maggiore BWV 1006/7 di J. S. Bach e un curioso pastiche in cui ho riconosciuto frammenti del Preludio della succitata Partita bachiana, del Dies iræ gregoriano e (forse) della Passacaglia di Händel/Halvorsen.
Ha chiuso la serata la Sinfonia n ° 7 in re minore Op. 70, del 1885. Dvorák non è solo il compositore della Sinfonia “dal Nuovo Mondo”, e la Settima, che non veniva eseguita alla Rai dal 2004, è la prova di quanto ci si possa perdere a ignorare le altre Sinfonie. È poderosa, seriosa, e, a cominciare dalla scelta della tonalità di re minore, la più “romantica” delle nove. Venne composta su commissione della Royal Philarmonic Society di Londra, che, nel 1884, lo elesse suo Membro Onorario (il pubblico londinese apprezzerà di Dvorák non solo la Settima, ma anche l'Ottava, che si guadagnerà l'epiteto di “Inglese”, perché fu l'unica pubblicata da Novello a Londra nel 1892).
Conlon propone una lettura austera del primo movimento, in tono molto “tedesco”, che ricorda il modo di dirigere il Brahms serio della Prima Sinfonia. Il grande rilievo dato ai timpani fa impennare facilmente la drammaticità di un lavoro già di suo molto drammatico, conferendogli una convincente aura di grandiosità. Ben sostenuto anche il Poco adagio seguente, meno esteriore, più raccolto, ma non per questo diretto meno attentamente. Il picco è stato però raggiunto dagli ultimi due movimenti: lo Scherzo assume le proporzioni di un racconto epico, acceso e fremente, e termina effettisticamente come lasciando in sospeso un discorso che viene ripreso dal quarto movimento, in cui l'intensità torna ai vertici, come e più che nell'Allegro maestoso d'apertura. Il tempo Allegro mantiene sempre una sua sobrietà e non perde mai il controllo, sebbene in certi passaggi sarebbe stato auspicabile un incalzamento maggiore, una verve più sentita, soprattutto verso i tre quarti del movimento. L'enfasi che pare scemare è riscattata però dalla pagina finale, che conclude trionfalisticamente la sinfonia e il concerto tutto con piena soddisfazione del pubblico, del direttore e dell'orchestra, che applaude al “suo” nuovo direttore.
Christian Speranza
9/5/2016
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