Trentacinque anni con Sumi Jo
La grande cantante coreana inserita nella Asian Hall of Fame
“La mia anima è una misteriosa orchestra”, parole di Fernando Pessoa che per eccentrici percorsi mi tornano in mente mentre mi accingo a intervistare Sumi Jo, forse perché mi attende in un caffè a Lisbona, città dove attualmente vive e da me sempre amata. Vi è un qualcosa di estremamente familiare nelle sue movenze, un aspetto bohémienne forse acuito dall'ampio cappello che porta con disinvoltura e grazia, come una grande attrice di altri tempi. Artista tenace e curiosa, mai paga dei traguardi raggiunti, sempre sorretta da una inattaccabile professionalità, Sumi Jo ha segnato la storia del teatro d'opera negli ultimi decenni. Abbiamo avuto il piacere di intrattenerci in una accattivante conversazione con lei, indubbiamente una diva del palcoscenico, ma anche una donna autentica dalla toccante umanità. Un'intervista nella quale abbiamo avuto la sensazione di sentire il fruscio del sipario che si alza ogni volta come se fosse la prima volta, perché dote principale di un cantante è quella di sorprendersi, di struggersi in un'eterna ricerca della perfezione. Sumi Jo racconta la sua vita, riuscendo a trasmettere l'emozione racchiusa in quegli straordinari incontri, in quelle esperienze che compongono la trama di un'esistenza intera.
La prima immagine artistica che vorrei evocare è quella del Maestro Herbert von Karajan, il quale ha dato un impulso fondamentale alla tua carriera.
Era il 1986 quando mi ha chiamata a Salisburgo per una audizione insieme a Cecilia Bartoli e a Lucio Gallo. Eravamo tutti giovanissimi. Ricordo ancora i suoi bellissimi occhi, i suoi capelli sottili screziati da un bagliore argentato. Quando ero ancora in Corea, nella mia stanza avevo una gigantografia del Maestro, alla quale mi rivolgevo alla sera quando mi coricavo e alla mattina quando mi svegliavo. Nel momento in cui ho potuto incontrarlo realmente, è stato come ritrovare una persona conosciuta. Da questo punto di vista credo nel destino. Herbert von Karajan è stato una figura di riferimento nella mia vita, con la quale potevo confidarmi non solo relativamente a problematiche di carattere estetico, ma anche in relazione a questioni intime e personali. Lui mi capiva veramente. Quando è morto, una settimana prima del Ballo in maschera salisburghese con Placido Domingo, è stato un trauma terribile. Ancora oggi mi manca moltissimo. É stato davvero il nonno che non ho mai avuto.
Parliamo della tua famiglia. I tuoi genitori hanno appoggiato le tue scelte artistiche?
Mia madre era fanatica di Maria Callas. Quando era incinta ascoltava tutti i giorni le sue registrazioni. Avrebbe voluto diventare una cantante lirica, ma la sua decisione è stata ostacolata dalla guerra. Per questo ha trasferito il suo desiderio su di me. Era naturale che io diventassi una cantante. Mia madre era una critica molto severa. Temevo il suo giudizio. Raramente mi faceva un complimento. Preferivo non venisse alle mie esibizioni, perché in sua presenza venivo assalita da emozioni troppo intense. É stata una figura molto importante per me. Negli ultimi anni, purtroppo, si è ammalata di Alzheimer. Non mi riconosceva più. Questo mi ha fatto molto male. Riguardo mio padre, anche lui era appassionato di musica. Ascoltava grandi compositori come Beethoven, Bruckner e Schönberg. In casa mia si respirava un'atmosfera molto occidentale, mitteleuropea direi. Quando decisi di partire per l'Europa, nel 1983, feci una promessa ai miei genitori. Avrei pensato esclusivamente alla carriera, e così è stato. Mio padre mi disse che per riuscire avrei potuto seguire un'unica strada. Può sembrare strano per una ragazza allora diciannovenne rinunciare a costruire una famiglia, ad avere dei figli. Eppure era quello che desideravo davvero.
Parliamo del tuo rapporto con l'Italia, un Paese al quale sei particolarmente legata.
L'Italia mi ha dato moltissimo. Recentemente il Presidente Sergio Mattarella mi ha insignito della importante onorificenza di Cavaliere dell'Ordine della Stella d'Italia, della quale sono grata. Inoltre importante è stato interpretare il brano “Simple Song #3” di David Lang nel film “Youth” di Paolo Sorrentino, che ha ricevuto il David di Donatello come migliore canzone originale. Negli ultimi dieci anni ho avuto molte difficoltà a lavorare in Italia. Anche per questo ho deciso di trasferirmi a Lisbona. L'Italia mi manca tantissimo. Spero di avere altre occasioni nei prossimi anni, non solo per cantare ma anche per insegnare nel vostro Paese, per trasmettere quello che ho imparato.
Alcuni ruoli sono indissolubilmente legati alle tue interpretazioni, penso alla Regina della Notte nello Zauberflöte, oppure a Zerbinetta in Ariadne auf Naxos.
Il Maestro von Karajan mi raccomandò di non cantare troppo spesso la Regina della Notte, una parte estremamente insidiosa. Dopo aver cantato il ruolo ed averlo registrato tre volte, con Georg Solti, con Armin Jordan e con Arnold Östman, ho seguito il suo consiglio. Riguardo Ariadne, io come carattere sono Zerbinetta, una donna molto allegra che ama esibirsi, ma quando si spengono le luci lei resta sola, melanconica e con un atteggiamento zen. Ho registrato la versione originale del 1912, più lunga e più acuta, con il tremendo ostacolo del fa diesis, con la direzione di Kent Nagano. L'ho fatta anche dal vivo a Lione per alcune recite. Ogni volta era una sfida, mentalmente e fisicamente molto ardua.
Ci sono altri direttori che hanno lasciato un'impronta particolare nella tua vita?
Ce ne sono tantissimi. Solti era molto amichevole, e nel contempo aveva un carisma enorme. Aveva le idee chiare ma sapeva ascoltare. Sinopoli era un re, autoritario e forte. Era un perfezionista che non accettava errori. Un aneddoto divertente riguardo Zubin Mehta. Io non sopporto i cibi piccanti ma il Maestro, pensando mi siano graditi in quanto coreana, era solito infarcire il mio piatto con il peperoncino macinato che portava sempre con sé in una boccetta. Ricordo ancora Lorin Maazel, un uomo davvero incredibile. Fuori dal teatro appariva con i jeans, la maglietta e il giornale arrotolato, abbigliato in modo tanto sportivo da non sembrare un direttore d'orchestra. In sala invece, anche durante le prove, era vestito in maniera impeccabile, elegantissimo. Lasciava tutti a bocca aperta.
Di solito vieni descritta come un'artista che è riuscita a unire Oriente e Occidente con grande naturalezza. E' stato difficile entrare nella cultura europea?
Sin da piccola mio padre mi faceva ascoltare l'inglese e il francese. Ho capito subito che il mio futuro era altrove. Ho la mente molto aperta. Non dimentico le mie origini, ma mi sento cittadina del mondo. Ovunque vado sono curiosa, desidero apprendere la lingua e le usanze del posto. Tutti i giorni imparo qualche cosa. A mio avviso tre sono gli argomenti che possono aiutare le persone a comunicare: la musica, lo sport e il cibo. Su questo terreno possiamo incontrarci, e superare le differenze. Io amo molto il calcio, una passione che è nata in Italia. Ho cantato in occasione di numerosi eventi sportivi, ed anche per i mondiali del 2004 quando l'Italia, ironia della sorte, perse proprio con la Corea.
C'è ancora qualche sfida che Sumi Jo vuole affrontare, qualche ruolo da inserire in repertorio?
Di natura non mi arrendo mai. Per me la vita è una sfida continua. Non ho paura di mettermi in gioco, anche in ambiti apparentemente distanti dall'opera lirica. Ho partecipato a esperimenti di musica leggera e di crossover, sempre con lo stesso atteggiamento. La prossima sfida è un album di arie tratte dall'opera russa, dodici brani dedicati ad altrettante figure di principesse in uscita per la Decca. Una registrazione a lungo rimandata a causa delle restrizioni per la pandemia, che ora è in dirittura d'arrivo. Un altro progetto discografico dal titolo Lux 3750 mi vede festeggiare i trentacinque anni di carriera insieme ai Musici, in occasione dei loro settanta anni di attività.
Cosa significa essere inseriti nella Asian Hall of Fame, in concomitanza con i trentacinque anni di carriera?
É certo una grande emozione, anche perché sono la prima coreana ad avere questo onore. Sento molta responsabilità, perché in questo particolare periodo storico sta emergendo un atteggiamento di odio nei confronti degli asiatici. La musica, da questo punto di vista, può fare molto per unire le persone ed aiutarle a superare le diversità.
Ringrazio Sumi Jo per la sincerità con la quale ha saputo raccontarsi mentre, forse per le suggestioni evocate dalle sue parole, penso ancora a Pessoa, a quella concezione onirica del vivere che, anche quando si è immersi nell'esistenza concreta, è la sostanza autentica di ogni artista.
Riccardo Cenci
25/10/2021