RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un viaggio nel tempo della tradizione

La Cantata dei Pastori

Da anni si fa un gran parlare di crisi dei teatri e degli enti lirici, ponendo l'accento non solo sulle innegabili difficoltà economiche in cui versano, difficoltà economiche dovute soprattutto alle politiche dissennate che investono tutte le istituzioni italiane, e in misura minore alla generale diminuzione del pubblico, vuoi per i costi sempre più elevati, vuoi per una strisciante ma non troppo disaffezione a tale genere di spettacoli. Lasciando in disparte il problema strettamente gestionale delle risorse, sia a livello statale che dei singoli enti, non si può non notare che tale disaffezione esiste, ma che è determinata anche da altri motivi che non quelli strettamente economici.

Ne è un esempio abbastanza indicativo il Bellini semivuoto che ha accolto il 15 dicembre la prima de La cantata dei pastori, un'opera di Peppe Barra liberamente ispirata ad un testo pubblicato verso la fine del 1600 da Andrea Perrucci sotto lo pseudonimo di Ruggiero Casimiro Ugone, col titolo Il vero lume fra l'ombre, ovvero La spelonca arricchita per la nascita del Verbo Umanato. Prima di scendere in particolari sulla rappresentazione, è necessario fare una precisazione riguardo al pubblico in sala, abbastanza sconcertato dall'inserimento in cartellone di un'opera del genere, e che in parte ha abbandonato il teatro alla fine del primo atto. Le rimostranze più frequenti lasciavano scorgere uno scontento dovuto alla novità della proposta, e in buona misura anche alla presunta non congruenza dello spettacolo con la sede in cui veniva rappresentato. Non solo: per chi come me frequenta abitualmente il teatro, è stato facile notare che molti degli stessi abbonati non sono nemmeno venuti, disertando di fatto una rappresentazione già pagata in anticipo.

Ora, è fin troppo chiaro che il pubblico, almeno quello catanese, non ama affatto le novità, le opere rare, e preferisce un repertorio blindato, che di fatto limita il patrimonio melodrammatico a non più di una ventina di opere, e che considera di conseguenza il teatro lirico una sorta di istituzione mummificata che anno per anno dovrebbe ammannire solo e soltanto titoli notissimi, conosciutissimi, e dunque estremamente rassicuranti (per dirla con Adorno), che permettono di aspettare l'acuto più o meno come un goal allo stadio, senza impegnare per nulla lo spirito critico e senza richieder alcuno sforzo di comprensione o di ascolto. Il risultato di ciò è, che a dar retta a tale pubblico, anno per anno bisognerebbe ascoltare sempre gli stessi titoli, più o meno a giro (Traviata, Rigoletto, Trovatore, Norma, Puritani, Madama Butterfly, Tosca, Bohème e via dicendo), dimenticando che il patrimonio lirico è, sociologicamente e storicamente, uno spaccato della vita culturale europea che, nelle sue modificazioni successive, accompagna passo passo l'evoluzione della cultura e della società: in tal senso, la proposta di opere non di repertorio blindato permette di fruire il teatro non solo come elemento di svago, ma anche e soprattutto di cultura nel senso più ampio del termine, rivivificandolo dall'interno e rendendolo un reale strumento di arricchimento e salvaguardia del patrimonio musicale internazionale, che non può e non deve essere limitato alle canoniche opere liriche o ai tradizionali concerti, se si vuole che anche i giovani si accostino a tali forme di fruizione culturale.

Ciò detto, va ascritto senz'altro a merito della gestione del Bellini di Catania l'aver proposto La Cantata dei Pastori, con la regia di Peppe Barra, a chiusura della stagione 2016, sia perché corrisponde ad un intento di ampliamento degli orizzonti del teatro, sia perché permette finalmente di vedere qualcosa di insolito, che può piacere o meno, ma che comunque dà dell'ente lirico una visione meno statica, meno tradizionale e più aperta a forme tradizionalmente ignorate dalle gestioni precedenti.

Lo spettacolo era di ottimo livello professionale, sia da un punto di vista scenico che attoriale, e ha consentito di conoscere un testo notevolmente stratificato nel tempo, che assommava in sé i caratteri della sacra rappresentazione, dell'oratorio e del comico popolare, corrispondenti ai tre registri, alto, medio e basso, che lo spettatore poteva agevolmente riconoscere nella sequenza delle scene. Le scene di Tonino di Ronza ricostruivano fedelmente l'ambientazione naif, molto colorata e con netta divisione scenica dei tre livelli di recitazione, rendendo in maniera efficace l'ingenuità popolaresca di uno spettacolo che, nelle intenzioni originarie, doveva avere un intento edificatorio ma anche genuinamente comico, per poter attirare anche le masse del popolo minuto. In tale ottica, forniva uno spaccato della società tra ‘600 e fine ‘800 che fruì l'opera nella sua versione originaria, fino a quando le autorità la fecero sospendere per il preponderare sempre più massiccio delle parti comiche con le conseguenti oscenità. La ripresa di Peppe Barra del 1974 segnò storicamente la rinascita dello spettacolo, unendo di fatto la versione storica a nuove esigenze di contemporaneità, una per tutte di quella strana commista creatura che è il presepe napoletano con i suoi politici, calciatori, attori, cantanti, personaggi dell'anno tra i pastori, la Sacra Famiglia e i Re Magi.

Anche le musiche di Carmelo Columbro, che ha diretto l'orchestra del nostro teatro, di Lino Cannavacciuolo e di Roberto de Simone, che ha firmato La Canzone di Razzullo, si mantenevano su un tono medio, dove l'elemento popolare emergeva prepotentemente, con momenti di notevole efficacia specie nelle scene dell'Inferno e nell'Adorazione finale. L'orchestra del Bellini, come anche il coro, si è disimpegnata con la consueta professionalità in questa prova, sfoggiando una vena picaresca che sarebbe stato difficile aspettarsi da strumentisti abituati a ben altro tipo di musica, riuscendo a dialogare con efficacia sia con Razzullo, impersonato da Peppe Barra, sia con lo spassoso Sarchiapone di Salvatore Misticone.

Quanto agli interventi comici, talvolta poco comprensibili per l'uso del dialetto napoletano che i bravi attori cercavano di supplire con la loro abilità mimica, se da un lato hanno molto divertito il pubblico, dall'altro non riuscivano a sottrarsi alle lungaggini del teatro comico vernacolare, con tutti gli espedienti attoriali del genere, dalle carrettelle alle intrusioni nel contemporaneo alla terza parete , e rappresentavano a nostro avviso il punto più debole dello spettacolo, trovando la loro giustificazione solo nella estrema stratificazione del testo, vero e proprio palinsesto più e più volte riscritto nel corso dei secoli.

Di grande suggestione i balletti, in particolar modo quelli delle scene infernali, e perfettamente rispondenti al milieu popolare dello spettacolo i bei costumi di Annalisa Giacci, assolutamente iconografici e naif quelli della Madonna, di San Giuseppe e dell'Angelo, ispirati alla comicità popolare quelli di Razzullo e Sarchiapone, coloratissimi e inquietanti quelli dei diavoli.

Giuliana Cutore

16/12/2016

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.