Così distanti, così vicini
Markus Stenz
Per una realtà come il Cantiere di Montepulciano – dove l'idea di partecipazione è un dato strutturale e la contiguità tra artisti e pubblico, o tra artisti e critici, non rappresenta una nota di colore, ma un rapporto osmotico imprescindibile – il solo parlare di “distanziamento” è un ossimoro. Questa estate di festival in emergenza sanitaria, dunque, sembrava incompatibile con l'abbecedario culturale della manifestazione poliziana, fondata quarantacinque anni fa da Hans Werner Henze all'insegna di un'utopia etico-artistica che la volgarità degli ultimi decenni ha messo così fuori moda da farla restare, paradossalmente, modernissima. Eppure, paradosso per paradosso, proprio questa edizione dimidiata (dolorosa la rinuncia al consueto titolo operistico) e “distanziata” ha dato luogo a un'annata fertilissima per singolarità di spunti. Partendo dalle irrinunciabili celebrazioni del duecentocinquantenario beethoveniano, il Cantiere ha costruito un percorso sotterraneo, eppure ben ricostruibile, attraverso la cultura sinfonica e l'evoluzione del linguaggio musicale (tedesco in primo luogo, ma non solo) tra Ottocento, Novecento e secolo presente: insomma la sempiterna dialettica, che Henze visse sulla propria pelle, fra tradizione da preservare e sperimentazione da coltivare. Il creatore del Cantiere è infatti, oltre a Beethoven, l'altra polarità del cartellone 2020; mentre, a fare da ideale terzo polo, troviamo Detlev Glanert: erede morale oltre che allievo di Henze (nonché a sua volta direttore artistico a Montepulciano per molte stagioni), sempre “lirico” e “romantico” ma come può esserlo un compositore radicato in una prospettiva di contemporaneità.
Un concerto in Piazza Grande ha riassunto felicemente il quadro: Markus Stenz, alla guida dell'Orchestra della Toscana, impagina un programma beethoveniano con pagina glanertiana al centro. Si parte dal Beethoven giovanile delle Creature di Prometeo, qui limitato all'Ouverture, per chiudere con quello immarcescibile dell'Eroica. Direttore con all'attivo molte “prime” henziane, Stenz – andrebbe accomunato a Nagano o a Salonen, per la capacità di estrarre i presagi del futuro dai grandi classici e la filigrana dei grandi classici dal repertorio contemporaneo – sottolinea la differenza tra le due pagine sin dalla mimica: più asciutta nel Prometeo (niente bacchetta, gesto parco, sguardo mobilissimo), mentre l'Eroica , fin dal primo movimento, viene sottratta alla massiccia severità della tradizione esecutiva in favore del fraseggio elastico e della flessibilità ritmica, di cui una mimica assai più esplicita – questa volta Stenz dirige con tutto il corpo, eloquentissimo il flettersi delle ginocchia – è il naturale corollario. Quanto a Idyllium di Glanert, si tratta della prima esecuzione italiana di una pagina recentissima (debutto ad Amsterdam l'anno scorso): l'autore ne parla come d'una riflessione attorno al mondo di Brahms, ma senso della forma e icasticità degli incisi tematici la rendono del tutto congrua in una serata beethoveniana.
A fronte d'un Glanert di oggi, ossia a un dipresso dalla sessantina, il pomeriggio aveva offerto un Glanert sedicenne: ovvero, anno più anno meno, coetaneo dei suoi esecutori. Nel Cortile delle carceri ha avuto luogo un concerto con i ragazzi del Zeisig Trio (quarantaquattro anni in tre), freschissima formazione capitanata da Leila Fathall, violinista quindicenne di sorprendente maturità interpretativa e carisma da leader, cui fanno più acerbo ma comunque professionalissimo supporto il pianoforte di Yanzhuen Sun e il violoncello di Aaron Woyniewicz. Tra un Haydn paradigmatico (il Trio in Sol maggiore) e una Clara Schumann di rara esecuzione, c'è stato spazio per Zwei Liebeslieder: breve esperimento composto dall'adolescente Glanert nei suoi anni di apprendistato, che non aveva mai trovato la strada dell'esecuzione. La prima parte suona oggi, forse preterintenzionalmente, molto anni Settanta, mentre il secondo Lieder è più “facile” e commosso. Nell'insieme una curiosità che valeva la pena di far conoscere. E a cui la giovanissima Leila – è il violino a svolgere il ruolo privilegiato – mostra di credere davvero.
Alessio Boni e Michela Cescon
Insomma, un tipico “concerto da Cantiere”. Così come emblematico dello spirito cantieristico, e della sua capacità di fare necessità virtù, è stato il concerto in piazza del giorno dopo: quattro brani scritti ad hoc commissionati ancora in regime di pandemia e concepiti per musicisti “distanziati” (Echi d'istanti era appunto il titolo della singolare serata). Al di là della variabilità dei risultati (di grande effetto tromba e timpani nella pagina di Oliver Durendal, maggiore la suggestione concettuale nel lavoro di David Graham, gli altri due pezzi portavano la firma di Norberto Oldrini e Claus Kühnl), colpisce la “rarefazione materica” – un ossimoro solo apparente – dell'operazione, la capacità di trasformare la distanziazione in spazializzazione sonora. E quei percussionisti sparpagliati sulla torre del Palazzo comunale, lontani metri e metri dal palco dei colleghi, è un'immagine che resterà negli annali di Montepulciano. Infine, Henze: presente non solo tra i concerti, ma protagonista dello spettacolo di prosa, nonché unico evento svoltosi all'interno del Teatro Poliziano anziché all'aperto. Sarebbe, però, più giusto dire coprotagonista: Fuga a tre voci, drammaturgia e regia di Marco Tullio Giordana, ci conduce, con leggerezza e pudore, attraverso il carteggio tra il musicista e Ingeborg Bachmann, il loro sodalizio artistico (lei gli fornì i libretti di Der Prinz von Homburg e Der junge Lord), la loro platonicissima ma non per questo meno sensuale amicizia amorosa. Come spesso accade ai cineasti quando si confrontano con le tavole del palcoscenico, Giordana firma uno spettacolo discreto, assai musicale (la “terza voce” del titolo è quella della chitarra, strumento cui Henze dedicò un segmento non secondario della sua attività, qui affidata agli interventi di Giacomo Palazzesi), fedele alla musa del contrappunto più che a quella dell'armonia: il diverso imprinting degli interpreti – cinetelevisivo per Alessio Boni, teatrale per Michela Cescon – resta evidente, in termini di recitazione.
La reciproca identificazione tra compositore e poetessa, nonché la sfumata ambiguità sessuale che ne deriva, viene restituita dal ribaltamento dei ruoli nella lettura epistolare (tranne che nel finale, Boni dà voce alla Bachmann e la Cescon a Henze): nonostante il carattere spinoso di entrambi – l'intransigenza etica di Hans Werner, le riflessioni attorno a un Io femminile devastato di Ingeborg – si entra in empatia con questi due trentenni degli anni Sessanta, la loro sensibilità intellettuale, il loro arrestarsi davanti alla Storia per entrare in un tempo provvisorio (Gestundene Zeit fu una definizione della Bachmann). E l'immagine finale, con la sigaretta invisibile che rimanda alla tragica morte di lei tra le fiamme della propria vestaglia, ha l'impatto di un'inquadratura cinematografica, quasi a volerci rammentare, al calar del sipario, il pedigree di Giordana.
Paolo Patrizi
6/8/2020
Le foto del servizio sono di Giacomo Bai-Studio Pichini.
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