Il canto del gallo (e dello zar)
L'animo russo è sempre stato diviso tra tensioni spirituali e pulsioni sulfuree, la parabola di Gogol – che dopo essere stato il letterato più rivoluzionario del suo tempo grazie all'ars grottesca delle Anime morte morì conservatore, distruggendo parte di quel suo “peccaminoso” capolavoro – è esemplare sotto tale profilo. Rimskij-Korsakov conobbe in un certo senso il percorso opposto: un conservatore nelle dichiarazioni d'intenti che si rivelerà un innovatore nei fatti. Musicista di aureo accademismo (sarà proprio la sapienza strumentale della sua Notte di maggio a stemperare l'umorismo nero gogoliano che ne è fonte letteraria), ripulitore delle “intemperanze” mussorgskiane con una riorchestrazione del Boris Godunov tanto smagliante quanto anestetizzante, intenzionato ad abbondonare le scene operistiche dopo lo spirituale e “parsifaliano” La leggenda della città invisibile di Kitež, lascerà invece a proprio testamento artistico una favola crudele, urticante e satirica come Il gallo d'oro. Che non a caso, forse, approderà sul palcoscenico solo in via postuma (1909), dopo che il cuore non più sanissimo del vecchio Rimskij aveva avuto il colpo di grazia dai continui ostacoli frapposti dalla censura alla messinscena.
Crocevia di fiabesco e politico, esotismo orientaleggiante e comicità tagliente, Il gallo d'oro appare oggi come una satira diacronica: attualissima ai tempi della sua composizione (quello zar che regna addormentato poteva alludere alla recente disfatta russa nella guerra contro il Giappone) come in anni di regime sovietico o in epoca cafonal putiniana; e che d'altronde, oltre ai potenti, radiografa e sbeffeggia il potere in ogni sua declinazione, non ultimo quello della femmina sul maschio. Ovvio quindi che un regista di genio come Dmitry Bertman, fondatore a Mosca di quel “contro-Bolshoi” che è l'innovativo e impertinente Teatro Helikon, trovi in quest'opera pane per i suoi denti: ne approntò una prima messinscena giusto all'indomani del crollo dell'Unione Sovietica e torna adesso sui propri passi, con un nuovo allestimento rimodellato su questi anni forse ancora più sinistri (per l'Europa non meno che per la Russia). Ora però, fortunatamente, anche il pubblico italiano può apprezzare lo spettacolo. Basta essere andati a Bari, dove è stato proposto per sei repliche al Teatro Petruzzelli.
La prima cosa che salta agli occhi – anzi, alle orecchie – è il sincretismo creatosi tra due diverse realtà artistiche. L'orchestra e il coro del Petruzzelli non solo agiscono in assoluta unità d'intenti con i solisti dell'Helikon, ma pervengono a fraseggi e sonorità perfettamente idiomatici, come avessero Rimskij-Korsakov in repertorio da anni. Merito certo pure della concertazione di Yevgeny Brazhnik, che già aveva diretto lo spettacolo a Mosca: taglienti acidità ritmiche e morbide sinuosità melodiche, burbanzose marce militari e ninnenanne cullanti, il declamato sopracuto del tenore, il cantar parlando dei bassibaritoni, il belcantismo quasi fuori tempo massimo del soprano, tutto viene restituito in una lettura caleidoscopica eppure mai dispersiva, anzi capace di coagulare la partitura in un'impeccabile unitaria plasticità. Su tale piattaforma Bertman fa agire uno spettacolo di fertile sgradevolezza e assoluto divertimento, impietoso nel ritrarre una vicenda dove non c'è un solo personaggio positivo (anche il lavoro sulla fisicità dei cantanti acuisce questa sensazione), di ambientazione modernissima ma neutra: un moderno senza tempo – l'oggettistica anni Cinquanta si alterna al cafonesco televisivo di oggi – che acuisce l'eternità della satira e l'incorreggibilità dei meccanismi del potere, dell'adulazione e della sopraffazione in ogni epoca o latitudine.
Strepitoso sul piano recitativo, il cast schiera cantanti-attori che talvolta sono forse più attori-cantanti: ma il risultato dà ragione a loro. Mikhail Guzhov è un basso buffo che può arpeggiare da Don Basilio a Prokofev e il suo zar bambinone capriccioso, nonché vecchietto infoiato, ha il crisma del ritratto a tutto tondo. Più bassobaritonale (e voce forse più importante) Dmitry Skorikov nei panni del generale, quintessenza dei disastri di ogni militarismo. Alle prese con la parte sopracuta dell'astrologo il tenore Ivan Volkov sfoggia tutte le note necessarie, non la sonorità per rendere debitamente penetranti quelle note stesse: il ruolo, però, è davvero proibitivo. La vocalità cristallina del soprano viene invece restituita in primo luogo dal languore del canto di Lidiya Svetozarova, ben immedesimata nei richiami erotici della zarina; ma – munita di cresta e costume dorato – anche Maila Barkovskaya offre al galletto eponimo un bello squarcio di teatro cantato.
Resta il mezzosoprano Ksenija Viaznikova (un'istituzione, in Russia): una di quelle protagoniste-caratteriste che i teatri occidentali non hanno quasi mai e rappresentano invece una colonna per i palcoscenici dell'Est. Qui plasma la vecchia balia, trasformata però da Bertman in matura segreteria. Occhialuta, cicciona, materna. E in fondo, per lo zar, anch'essa desiderabile.
Paolo Patrizi
23/11/2021
La foto del servizio è di Clarissa Lapolla.
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