Capre senza pastore
Salvo eccezioni tanto significative quanto sporadiche, il teatro d'opera è sempre stato un genere narrativo, non speculativo. Evita di porre domande, semmai offre (e solo retrospettivamente) qualche risposta. Sotto tale profilo è difficile pensare a un drammaturgo meno operistico di Ugo Betti: la sua scrittura fittamente dialogica e semanticamente densissima, le sue indagini attraverso territori psichici insondabili, le sue requisitorie sul buio della natura umana – permeate da un'ansia di purificazione che al calar del sipario resta delusa, senza però escludere una catarsi del domani – sono tasselli di un mosaico poco traducibile in termini di teatro musicato e cantato. Quali sollecitazioni, dunque, possono aver spinto un compositore versatile e sostanzialmente tradizionale come Marco Taralli a mettere in musica Delitto all'isola delle capre (1948), il più paradigmatico dei testi di Betti assieme a Corruzione al Palazzo di Giustizia ? Forse l'involucro da noir, cosa che significa mantenerne più che altro la facciata (scelta, d'altronde, conforme alla sempiterna natura semplificatoria degli adattamenti operistici rispetto alle loro fonti letterarie). Forse la tematica “pasoliniana” di un microcosmo il cui fragile equilibrio viene terremotato dal risvegliarsi delle pulsioni erotiche: anche se Teorema sottintendeva un j'accuse contro farisaici perbenismi borghesi, mentre l'eversiva spinta dionisiaca che scompagina l'isolamento – geografico e mentale – delle tre protagoniste è figlia, in Betti, di un teatro ontologico, non ideologico. Forse (in questo dramma tutto è “forse”) la presenza di elementi ineffabili, quelli sì stimolanti l'elaborazione musicale: il brucare delle capre, il vento che fa sbattere le persiane, il fantasmatico rimbombare del pozzo.
Commissionata dal Teatro Pergolesi di Jesi che l'ha rappresentata in “prima” assoluta, Delitto all'isola delle capre è quindi una sfida non solo per il compositore, ma anche per il librettista. Emilio Jona vi si accosta con pragmatico spirito artigianale, molte inevitabili omissioni e un ribaltamento di prospettiva. Le tre donne, infatti, diventano meno caratterizzate del protagonista maschile, qui autentico mattatore trasformato da personaggio-simbolo a concretissimo, diabolico Dioniso che mette in fregola tre donne troppo sole, sottomettendo il matriarcato ai voleri del maschio. Siamo insomma nei paraggi delle Sorelle Materassi , più che della metafisica bettiana; e il fatto che pure nei dialoghi il librettista cerchi appigli esterni, con citazioni facilmente riconoscibili (quella «capra dal viso semita» e l'esclamazione «La commedia è finita!» discendono dritte dritte da Umberto Saba e Leoncavallo), lascerebbe pensare a una limitata fiducia nei confronti del testo originario. Come che sia, la musica trae buon partito da tale adattamento. Il versante canoro non è troppo icastico, dato che il trio femminile appare informato a vocalità più omogeneizzate che differenziate, mentre la scrittura da basso profondo del protagonista – funzionale a suggerire un inabissarsi agli inferi – mette soprattutto in luce l'emissione scompaginata di Andrea Silvestrelli. Tuttavia, dove il canto non arriva a “raccontare”, provvede l'orchestrazione. L'organico a soli dieci strumenti su cui Taralli sceglie di lavorare si rivela scelta assai espressiva, a partire da certi impasti dell'oboe ad alta densità semantica, dando vita a una partitura altalenante tra tensione verso un centro tonale e volontà (almeno parziale) di eluderlo: il che, in fondo, è un modo di riproporre per altra via quella dialettica tra precordi arcaici e sensibilità contemporanea posta al centro del dramma di Betti, sorta di tragedia greca aggiornata al teatro psicanalitico. Alla fine, una scommessa vinta. E a sancirlo è il pubblico, quando esce di sala canticchiando il brano più accattivante: la filastrocca del basso, sulfureo nonsense basato su una singolare intervallistica non priva di echi slavi.
Ad avvalorare l'esito musicale provvede il Time Machine Ensemble, compagine di musica contemporanea tra le più interessanti oggi in circolazione (un'infallibile precisione ritmica che non va a scapito dell'espressività), in fertile osmosi con il direttore Marco Attura. Alle prese con i loro personaggi ferini ormai privi di qualsivoglia stella polare, i cantanti non hanno offerto un contributo altrettanto risolutivo: ma si lasciano apprezzare il bel colore mezzosopranile di Sofia Janelidze, la sicura musicalità di Federica Vinci, il puntuale comprimariato tenorile di Alessandro Fiocchetti. Ancora acerba Yuliya Tkachenko, mentre dei limiti di Silvestrelli si è detto. La formidabile sonorità del suo registro grave non passa comunque inosservata. La regia di Matteo Mazzoni gioca la carta di un ossimorico realismo stilizzato (a cominciare da certi fermo immagine di suggestione cinematografica) e a corroborare una simile lettura provvede l'ambiente disegnato dalla giovane Josephin Capozzi: una roulotte, tradizionale simbolo di spostamento e libertà, qui trasformata in scenario d'un dramma il cui motore sono la claustrofobia e l'impossibilità di fuga. Autrice anche dei costumi, il suo lavoro è frutto – benemerita formula già sperimentata a Jesi nella passata stagione – di un concorso riservato ai neodiplomati in alcune accademie italiane di Belle Arti. Dunque, un modo per consentire alle nuove leve di mettere in pratica quanto appreso in via teorica. E soprattutto di fare il primo ingresso professionale nel mondo del teatro.
Paolo Patrizi
27/11/2022
La foto del servizio è di Binci.
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