Una statuaria Carmen
Carmen, la sigaraia di Mérimée, ma molto più di Bizet, che ne seppe trarre un'opera di abbagliante solarità, dove, per dirla con Nietzsche, si esplicita il coraggio di una sensibilità “meridionale, brunita, arsa dal sole” e si attua “finalmente l'amore, l'amore ricondotto indietro verso la natura”, è la creatura libera per eccellenza, perversa forse, ma dotata di una sensualità sanguigna e irrefrenabile nella sua ferinità. Questo invincibile anelito alla libertà costituisce per così dire il fato di Carmen, un nesso contradditorio dove la volontà di vivere liberamente, seguendo le proprie inclinazioni, si tramuta in un destino ineluttabile che la condurrà alla morte. Fato dunque, più che destino, un fato individuale che può comunque coesistere con la libertà della quale è figlio.
Considerato il personaggio Carmen sotto questo punto di vista, stupisce alquanto che il Balletto di Milano, e in particolare i coreografi Agnese Omodei Salé e Federico Veratti, abbiano incentrato la loro Carmen, andata in scena al Bellini di Catania il 21 novembre (con repliche sino al 26), su un Destino perennemente incombente, che spadroneggia sin dalle prime battute del balletto, forzando Carmen, talvolta respingendola a forza tra le braccia di Don José o di Escamillo o tirandola per i capelli, riducendo la sigaraia quasi a una bambola di pezza tra le sue mani. Il fato esiste sì in Carmen, e nella musica di Bizet il suo tema percorre tutta l'opera, ma è un fato che nasce dalla donna stessa, non dall'esterno, perché anche dinanzi alla morte la donna esclamerà: “Jamais Carmen ne cédera! Libre elle est née et libre elle mourra!”
Tra le spire invece di questo Destino, Carmen diviene conseguentemente una donna incerta, ondeggiante, il che si traduce purtroppo a livello coreutico in una danza priva di sensualità, mai dirompente, spesso cristallizzata in una statuarietà poco pregnante, statuarietà che si ripercuote su tutta la coreografia, sovente statica e priva dell'impetuosità viceversa stimolata a gran forza dalla musica.
Minimaliste le scene, tranne quella della taverna, resa un po' più calda dai fondali e dalle luci, e minimalisti anche i costumi, sempre di Federico Veratti, che non rammentavano se non alla lontana lo scatenato clima gitano a cui avrebbero dovuto fare da contraltare le guardie guidate da Don José. In generale, nonostante i lodevoli sforzi della compagnia di ballo, dalla protagonista Alessia Campidori ad Alessandro Orlando che impersonava don José, passando per il Destino di Alessandro Torrielli e l'Escamillo di Federico Mella, talvolta alquanto inceppato nonostante la buona forma fisica, per finire con la delicata Micaela di Marta Orsi, forse la migliore in assoluto, si avvertiva spesso un effetto d'insieme più da saggio o assaggio di danza, amplificato dalle lunghe sequenze gestite un po' in economia, dove il movimento sulla scena si riduceva a pochi passi, a piroette accennate, con un virtuosismo e una spettacolarità praticamente assenti.
Si sarà trattato forse di una scelta coreografica, non lo si può mettere in dubbio, di un tentativo di puntare più sull'icasticità simbolica del personaggio, ma certo è che Carmen ne usciva totalmente denudata delle caratteristiche sensuali e perverse che Mérimée prima e Bizet poi avevano accuratamente sottolineato, con le parole e con la musica.
L'orchestra del nostro Bellini, solitamente professionale e di ottima resa, è sembrata alquanto spaesata dalla direzione di Gianmario Cavallaro, che ha impresso a questa Carmen, e più precisamente alla due Suites ricavate dall'opera omonima, e alla seconda Suite de L'Arlesienne, entrambe di Ernest Guiraud, sonorità a tratti eccessivamente stentoree e debordanti e talvolta tempi serrati che mal si adattavano alla generale lentezza e staticità dei danzatori.
Giuliana Cutore
22/11/2017
La foto del servizio è di Giacomo Orlando.