Torino
Due cast per Carmen
Mi si scuserà, ma continuo a credere che per avere successo nel riprendere un titolo lirico ‘popolare' la prima cosa dev'essere trovare gli interpreti adatti e solo poi l'allestimento scenico. Se non fosse così dovrei dire che questa Carmen non è stata azzeccata, quando invece penso, per sommi capi, il contrario: non sempre abbiamo visto Carmen – malgrado alcune buone idea di regia, quale presentare una Micaela disperatamente a caccia del ‘suo' fidanzato, o fare dei capi dei banditi due membri corrotti dell'esercito con un chiaro rapporto di gerarchia fra di loro – ma invece in tanti momenti l'abbiamo sentita, e grazie alle voci ma anche all'espressività di alcune e ai musici si potevano capire e condividire gli applausi.
Lo spettacolo è nato a Zurigo per la regia di Matthias Hartmann e la cosa peggiore sono i costumi delle signore (Su Büher) e le scene (Volker Hintermeier). Nell'atto ultimo sembra di trovarsi nel Far West o, tutt'al più, nell'ultimo atto, sì, ma quello della Manon Lescaut. Complessivamente, quel che funziona meglio è l'atto terzo. Nel primo sembra di trovarsi in una società militare perchè quasi non ci sono dei cittadini, borghesi o meno. Quando si arriva alle impiegate della fabbrica scende veloce un sigaro dalle luci al neon e compaiono all'improvviso due utili e precarie porte. Il palco scenico spoglio va benissimo, ma l'arte povera e il minimalismo insieme fanno una brutta copia: la taverna di Lillas Pastia è così miserabile che neanche Ava Gardner ci avrebbe messo piede – o forse sì, se ci fosse stato anche Hemingway. Sempre si trova qualcosa in primo piano: nel primo atto si tratta di un cane (non vero per fortuna) che resta immobile finchè scodinzola quando Carmen gli passa accanto durante l'Habanera.
Negli altri si trova una roccia, un teschio di vacca morta ecc. José aspetta ‘tra la folla': qui invece si nasconde dietro un albero in modo così evidente che perfino un cieco sarebbe capace di vederlo, e senza aiuto. Le guardie che si danno il cambio non ci sono se non nella musica: i bambini si presentano e se ne vanno (molto bravi) senza un motivo apparente; perchè poi prima di levarsi dai piedi si mettano a riposare non saprei dirlo. È pratico e poco costoso fare sì che la grande sfilata dell'atto quarto avvenga fuori dal palcoscenico da dove la guarda il coro, ma vari momenti del testo rimangono incomprensibili, e poi Escamillo e Carmen piombano dal nulla visto che un momento prima ancora tutti li avevano davanti agli occhi ma fuori dal palcoscenico.
Presentare un titolo così popolare con due compagnie può essere o diventare impresa ad alto rischio. Non per fortuna nel presente caso. Avere due cantatrici italiane tra le grandi protagoniste di oggi dovrebbe essere motivo di orgoglio per il pubblico anzichè correre dietro a qualche nome che ha fama d'importante. Anna Caterina Antonacci ha interpretato già parecchie volte la zíngara, tra le sue creazioni più applaudite e, com'è logico in un'artista quale lei, continua ad approfondirne l'interpretazione, una delle più complete ch'io abbia mai visto, assolutamente padrona del personaggio che canta, dice e interpreta in modo tale che con solo lei è garantita in buona parte la riuscita della recita.
Veronica Simeoni è più giovane, con voce freschissima, che le consente qualche acuto di effetto nella ‘seguidilla', oltre a quello, scomodissimo, che chiude l'aria. Ha poi il merito, benchè si veda che ha studiato l'interpretazione dell'Antonacci, di capire che per voce e figura non può semplicemente ‘imitare', e così la sua zingara è più instabile, caratteriale e scherzosa; sembra anche più interessata, anche alla fine, a José, anche se ormai il suo oggetto di desiderio è Escamillo. E la ‘valutazione' che fa di Micaela e più ironica, quasi cinica. Inutile in entrambi casi cercare un momento privilegiato anche se la scena finale s'impone da sola.
Dmytro Popov è un giovane tenore di voce importante ma ancora un po' rigida e non sempre con il dovuto squillo; quasi mai canta a mezzavoce e quando ce la fa si nota lo sforzo tecnico. Bravo attore, il suo aspetto da giovane inesperto permette di scoprire anche l'aspetto di rapporto madre-figlio nel suo ostinato e disperato attaccarsi a Carmen.
Roberto Aronica ha affrontato parecchie volte e con sucesso Don José, ha dalla sua anche un francese corretto, l'interpretazione è più estroversa e anche la sua voce, ancora più di quella di Popov, significa un ritorno ai tenori ‘spinti': il volume è enorme ma sorprendentemente durante l'aria del fiore ci sono tante sfumatore e gli riesce perfino senza difficoltà l'acuto filato che in tante altre ugole diventa falsetto: sarebbe ora che i ‘grandi teatri' (?) ne prendessero atto: la Scala e il Met sembrano per fortuna già essersene accorti).
Vito Priante offre un Escamillo più musicale e più intenzionato nel fraseggio che non Luca Grassi, più di una volta ingolato, ma nessuno dei due ha il materiale ideale, quasi impossibile da trovare, per il torero.
Irina Lungu è brava cantante, di buon acuto, centro e grave un po' scarsi (in origine era un liricoleggero), timbro non troppo interessante; invece Mariangela Sicilia, una vera sorpresa per quanto mi riguarda, e un soprano lirico puro, di timbro molto più ricco e anche di buona estensione: entrambi i soprano rendono bene quell'aspetto ‘nuovo' di Micaela presente nella regia come si diceva prima.
Gli altri, con l'eccezione probabile di Emilio Marcucci nella parte di Morales, risultano discreti, corretti o buoni: mi dispiace che Luca Tittoto non avesse troppo da cantare come Zúñiga, a parte quella novità di farlo finire ammazzato che pare ormai un topos degli ultimi tempi. Interessante Paolo Maria Orecchia nel suo intenso Dancairo, bene Luca Casalin, un Remendado inserito nella tradizione dei tenori caratteristi; acuto incisivo ma non sempre bello quello di Anna Maria Sarra (Frasquita) e voce a momenti opaca quella di Lorena Scarlata Rizzo (Mercedes, meglio nella seconda delle recite).
Il coro di voci bianche e quello stabile del Regio facevano un ottimo lavoro, istruiti da Claudio Fenoglio. L'orchestra è una colonna portante delle recite del Regio. Asher Fisch faceva un buon lavoro, magari non memorabile – non era certo colpa sua qualche sfasatura con il tenore all'inizio della romanza del fiore, ma poteva fare di più per il difficile quintetto dell'atto secondo – e in qualche momento (finale dello stesso atto) prediligeva il fortissimo, ma si tratta di un maestro sicuro se non brillante.
Il giovane Ryan McAdams, al suo debutto a Torino ma anche per la prima volta alle prese con Carmen , dimostrava di avere carattere ed energia – qualche volta un po'troppo: Bizet non è mai Wagner, ma per fortuna non capitava quando erano chiamati in causa i cantanti. Il pubblico applaudiva con entusiasmo e nella seconda recita interrompeva il preludio trascinato probabilmente dal maestro. Teatro pieno zeppo alla prima delle due, la seconda un po' meno (partita Italia-Germania).
Jorge Binaghi
4/7/2016
Le foto del servizio sono di Ramella&Giannese-Teatro Regio di Torino.
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