RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Una Carmen esangue al Teatro dell'Opera

A volte l'eccessiva popolarità di un titolo, complice una prassi teatrale sclerotizzata, nuoce al suo corretto apprezzamento. E' il caso della Carmen di Georges Bizet, capolavoro di approfondimenti psicologici, almeno per quanto riguarda i due protagonisti, a volte trascurati in favore di una generica vivacità mediterranea e di un colorismo folclorico eccessivo. L'ambientazione spagnola è un valore aggiunto che non esaurisce la complessità del dramma. Non è un caso che in un ambito geografico totalmente diverso Cajkovskij, grande estimatore dell'opera, nel descrivere l'ossessione di German nella Dama di Picche abbia guardato proprio a Don José e alla poetica di Bizet. Entrambi i personaggi rappresentano il concretizzarsi di un destino di morte simbolicamente prefigurato dalle carte (presenza costante nel lavoro del compositore russo, rivelazione traumatica e ineluttabile nell'opera francese, nella famosa scena all'inizio del terzo atto). In Carmen vi è poi un altro elemento essenziale, quel fiore che la zingara getta a Don José e che diviene il segno dell'affatturamento, del sortilegio che avvince gli amanti fino al tragico epilogo. Da quel momento il soldato si trova suo malgrado fuori dall'ordine e dalle regole della società costituita, in quel territorio alternativo e periglioso rappresentato dal mondo gitano. Carmen simboleggia l'anticonformismo più sovversivo, la scelta della libertà a tutti i costi, anche a prezzo della morte.

L'allestimento andato in scena all'Opera di Roma proviene dal Teatro Municipal di Santiago del Cile. Essenziali ma funzionali le scene di Daniel Bianco, improntate ad un naturalismo sobrio che rifugge ogni sfrenatezza spagnoleggiante, restituendo alla vicenda l'autenticità che le è propria. Un semplice velo rosso copre la scena durante il preludio iniziale ad introdurre un dramma fatto di carne e intriso di sangue. La regia di Emilio Sagi insiste fin troppo sul carattere debole e insicuro di Don José, trasformato in un fantoccio nelle mani dell'intraprendente sigaraia. Il personaggio non evolve nel corso della rappresentazione, ma resta sostanzialmente immutato. Manca il progressivo insinuarsi della gelosia e dell'ineluttabile destino, mancano la follia e l'accecamento passionale. Anche nel duetto conclusivo l'amante respinto resta timido e timoroso di affrontare la focosa compagna, la quale infatti si getta quasi di proposito sul coltello che questi non ha il coraggio di far vibrare. Alla fine l'accento è tutto sul personaggio femminile, vittima dei propri impulsi autodistruttivi. Alcuni dettagli paiono voler introdurre elementi curiosi, ma anche superflui, nell'azione. Si pensi allo strano personaggio che si aggira nella taverna di Lillas Pastia, sorta di travestito barbuto e crudele che non esita ad uccidere brutalmente Zuniga alla fine del secondo atto. Bello invece il brano danzato all'inizio del quarto atto ad evocare le atmosfere sanguigne della corrida.

Riguardo la parte musicale, Emmanuel Villaume inizia in sordina, con una direzione a volte chiassosa, convenzionale e povera di fantasia. Il meglio viene nel finale, condotto con avvincente continuità narrativa. Giuseppina Piunti è una Carmen di rara avvenenza, sostanzialmente corretta anche se le manca la statura della grande interprete. Penalizzato dall'impostazione registica sopra descritta, nonostante la buona volontà e la voce sufficientemente robusta, ma non troppo raffinata tecnicamente, Andeka Gorrotxategui non riesce a riscattare il personaggio di Don José da una debolezza intrinseca. Simón Orfila è un Escamillo dall'ottima presenza scenica, un poco offuscato dal punto di vista vocale. Brava la Micaëla di Erika Grimaldi, verginale e pura come si conviene. Buoni infine lo Zuniga di Gianfranco Montresor e gli altri comprimari. Il pubblico, alla fine della rappresentazione, dimostra comunque di apprezzare.

Riccardo Cenci

27/6/2014

Le foto del servizio sono di Francesco Squeglia.