Cavalleria Rusticana
fra sanguignità e fatalismo
Proporre ancora una volta al grande pubblico un'opera celebre e celebrata come Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni è senz'altro una sfida imponente sia per il cast vocale, sia soprattutto per il regista, che deve da un lato evitare le secche dell'oleografica tradizione fatta di carretti siciliani, ficodindia, paesaggi aridi e brulli o piazzette più o meno anguste, e dall'altro sfuggire alle tentazioni gratuitamente sperimentali, dove il dettato del libretto viene del tutto ignorato per dare vita a rappresentazioni lambiccate, falsamente sociologiche, che di fatto impediscono la fruizione di quel complesso prodotto letterario-musicale che è l'opera lirica italiana.
Cavalleria Rusticana, andata in scena al Teatro Antico di Taormina il 10 e 12 agosto, ha costituito un fenomeno di raro equilibrio, dove le potenzialità espressive del libretto tratto dall'omonima novella di Giovanni Verga venivano sapientemente esaltate grazie ad una valida idea registica di fondo, che poco o nulla aveva a che fare con lo svilimento dialettale che Cavalleria ha subito sin dai tempi della sua riduzione teatrale, che trovò nella compagnia di Giovanni Grasso sia la cassa di risonanza che le diede celebrità, sia purtroppo l'elemento che, ipertrofizzandone l'aspetto regionalistico, la ridusse a drammone dialettale dove la sanguignità mediterranea dominava incontrastata, a tutto scapito del pregnante fatalismo che percorre sotterraneo tutte le opere del grande scrittore verista.
Questa fatalità incombente Enrico Castiglione ha perfettamente colto, sfrondando gli elementi naturalistici e stilizzando la gestualità dei cantanti, restituendo a questo cupo dramma della passione tutta la sua valenza universale, che nella musica del livornese Mascagni ha trovato la sua definitiva collocazione. Su un palcoscenico dominato da quella scenografia naturale che sono i resti del teatro antico, col suo occhio aperto su un mare che sembra indicare, oggi come un millennio fa, l'anelito dell'uomo all'infinito e ad una sovrumana libertà, una lunga croce a gradoni forniva un praticabile adatto al movimento delle corpose masse corali e all'interagire dei personaggi principali, rammentando però continuamente quel calvario che attende i protagonisti, calvario che si concreta paradossalmente proprio nella Domenica di Pasqua. Spesso si è assistito a regie di Cavalleria dove la croce campeggiava verticale sulla scena, incombendo ma di fatto rimanendo sempre estranea all'azione: qui la croce è posata in terra, si incunea nel dramma esistenziale, oggetto-non oggetto che i protagonisti possono e devono percorrere sino all'ineluttabile esito finale.
Ottima anche l'idea di sfruttare i momenti solo orchestrali per mimare l'azione pregressa del dramma, per segnare uno spartiacque, come nell'Intermezzo, quando sia Turiddu che Santuzza vengono circondati da figure femminili velate, nere, lamie o personificazioni del peccato, simbolo di un consegnarsi alla morte, fisica per l'uomo, morale per la giovane donna, morte che trova il suo ostensivo corrispondente nella scena finale, con la morte fisica di Turiddu in scena (non prevista dal libretto) alla testa della croce, mentre ai piedi di quest'ultima Santuzza e Mamma Lucia, avvinghiate come un gruppo sepolcrale, rappresentano una morte civile di giacomettiana memoria.
I bellissimi costumi di Sonia Cammarata, in perfetta linea con l'ambientazione storica, hanno fatto degna corona alla regia di Enrico Castiglione, limitando i colori vivaci solo al sontuoso costume di Lola, ai paramenti dei preti durante la processione, e ai grembiuli che adornavano le vesti femminili, dipinti a mano e che ripetevano, sia nelle tinte solari che nei motivi, le ceramiche di Caltagirone.
Daniela Dessì ha offerto una Santuzza dolente e composta, priva di scatti ferini: pur non del tutto a suo agio nel ruolo, specie nei momenti di forza, ha cantato dando prova di ottima tecnica e di sicuro controllo vocale, caratteristiche che le hanno permesso di dare il meglio di sé nel duetto con Turiddu, dove l'impeto verista cedeva alla vena squisitamente lirica. Fabio Armiliato ha cesellato un Turiddu composto e rattenuto, dal timbro caldo, evitando con ogni cura di scadere nella bieca e trita interpretazione sanguigna e a forti tinte, rispettando in tal senso l'idea registica di Castiglione; dopo la serenata fuori scena, con qualche incertezza, si è via via sciolto, trovando il momento più alto nel brindisi, che ha cantato con piglio sicuro e con grande brio, evitando per tutta la sua performance di forzare la voce, come sono tentati di fare parecchi tenori in questo ruolo. Bravissima Giuseppina Piunti: ha offerto una Lola sensuale e maliziosa, aggraziata e civetta, sia nei recitativi che nel magnifico stornello che racchiude l'essenza del personaggio. Di buona qualità anche le prove di Maria José Trullu e Valdis Jansons, Lucia e Alfio, ed equilibrato l'apporto del Coro Lirico Siciliano istruito con sicura professionalità da Francesco Costa. Luiz Fernando Malheiro ha diretto con oculata scelta dei tempi l'Orchestra Sinfonica del Festival Euro Mediterraneo, dosando le sonorità in modo da non sovrastare mai i cantanti.
Anche nella seconda parte, che prevedeva l'esecuzione dei celebri Carmina Burana, l'orchestra ha dimostrato un'ottima coesione, evidenziando un buon colore orchestrale e un discreto affiatamento, che le ha permesso di interagire validamente col coro e coi solisti Alberto Munafò, Francesca Rubino e Salvo di Salvo.
Giuliana Cutore
13/8/2013
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