Tota erras via
La crisi in cui versa l'Italia, crisi che lungi dal placarsi infuria ogni giorno di più, con una violenza devastante pari a quella degli ultimi nubifragi che hanno allagato il nostro paese, e che sta rapidamente erodendo il tessuto sociale dando vita a guerre fra i poveri simili a quelle delle periferie londinesi e parigine degli ultimi anni, costringe chi abbia un minimo di coscienza e di quello che i latini chiamavano decus, specie se ha la possibilità di levare pubblicamente la propria voce dalle pagine di un giornale o da quelle del web, a ripensare il dovere di un tipo di giornalismo da sempre impegnato su fronti altri rispetto a quelli economici e strettamente politici o cronachistici. Intendiamo riferirci al fronte artistico in senso lato, cioè a quel vasto campo musicale, letterario, teatrale che, dato che la stragrande maggioranza degli enti produttori e diffusori di arte e cultura vive di proventi statali, il che significa, ad un livello più basso, delle tasse e dei balzelli pagati dai cittadini, non è poi a ben vedere del tutto avulso da quello economico, sociale e politico stricto sensu. Fatta questa necessaria premessa, se ne può agevolmente dedurre che il critico teatrale o musicale non è poi molto diverso da coloro che, stufi degli imbrogli perpetrati da multinazionali, banche, enti ed associazioni di commercianti, decidono di riunirsi in quelle associazioni tipo altroconsumo e similari, volte alla tutela dei consumatori, e che in quanto tali compiono funzioni di sorveglianza e monitoraggio delle varie attività che hanno comunque, mediatamente o meno, a che fare con chi paga le tasse e paga per quel che consuma. In tal senso, oggi più che mai, il critico d'arte, ove si tratti di enti che campano sul denaro pubblico, ha l'obbligo morale, fatti salvi il rispetto umano e l'educazione, di sorvegliare ed eventualmente censire senza facili buonismi ciò che attraverso le tasse viene offerto ai cittadini che per di più pagano biglietti e abbonamenti.
Detto questo, possiamo senz'altro passare ad occuparci dello spettacolo che ha inaugurato la stagione 2014-2015 del Teatro Stabile di Catania, e che si è svolto il 21 novembre al Teatro Verga: Il giardino dei ciliegi, uno dei quattro capolavori di Anton Cechov, dramma celebre, entrato stabilmente da più di un secolo nel repertorio teatrale, e del quale non mancano illustri e giustamente famose edizioni. Una sfida, dati gli inevitabili ricordi che avrebbero ipso facto affollato la mente di chiunque abbia una discreta cultura teatrale, che il regista Giuseppe Dipasquale poneva in certo senso a se stesso e alla compagnia, che annoverava nei ruoli principali Magda Mercatali, Pippo Pattavina, Guia Jelo, Angelo Tosto, Gian Paolo Poddighe, Camillo Mascolino e Italo dall'Orto.
Cechov, com'è noto, traccia attraverso i suoi drammi il ritratto di una borghesia russa asfittica, apatica, legata a ricordi e tradizioni che stanno ormai per essere travolti dalla Rivoluzione d'Ottobre: uomini e donne che vivono come larve, in attesa di non si sa bene cosa, inerti, incapaci di fiutare il vento dei tempi, convinti come sono che tutto debba essere immutabile e che basti un volontarismo ottuso a chiudere la porta in faccia alla Storia. E questo vale per tutti i personaggi: borghesi e servi, vecchi e giovani, uomini e donne. Come più tardi faranno, modulandosi su aspettative diverse, i protagonisti di Aspettando Godot, Liubova e suo fratello Leonid continuano a gingillarsi la mente con le immagini di un giardino di ciliegi anticamera del paradiso, simbolo e metafora di una giovinezza perduta, di idilli agresti, di pace fasulla, di buoni sentimenti da due lire, di servi ossequienti e fedeli la cui vita si esaurisce nel servire i padroni, di un'ovatta mielata insomma che l'industrialismo nascente prima, e poi l'Armata Rossa avrebbero inesorabilmente travolto.
Un tale plot richiede una recitazione al confine tra il teatro naturalista ottocentesco e quello espressionista e dell'assurdo del Novecento: una recitazione dunque abbastanza straniata, con pause e silenzi significativi, dove la gestualità deve porsi al servizio della parola scenica e viceversa, in un continuo rimando a segno dove la battuta cruciale deve cadere con la forza di un macigno nel silenzio che le si crea attorno e che perdura per qualche breve, ma dilatato istante. Altrettanto deve dirsi per la voce, strumento principe degli attori: non recitazione monocorde, o tutt'al più impennantensi verso spesso sguaiati urli veristi, ma accorti passaggi di registro, naturalmente sorretti da una dizione egregia, atta a scandire e non a borbottare. Quanto alla gestualità, essa deve essere essenziale e pregnante, rifuggendo dal gesticolio fine a se stesso, dall'andirivieni confusionario, e deve essere supportata da un'attenta distribuzione degli attori sul palcoscenico, evitando magari di far loro pronunziare una battuta essenziale mentre escono di scena o, peggio ancora, di tenere la protagonista bellamente sdraiata sul pavimento una decina di minuti buoni e proprio quando la sua presenza dovrebbe essere quanto mai visibile.
Anche il commento musicale dovrebbe evitare di sovrastare gli attori mentre recitano, ed essere magari più in tema, più vicino storicamente e sociologicamente alla vicenda che si svolge sulla scena, ma questi sono dettagli…
Insomma, ci siamo dilungati su come sarebbe dovuto essere Il giardino dei ciliegi per cercare di far capire a chi ci legge che abbiamo assistito esattamente a tutto il contrario: una recitazione affannosa e concitata, con attori che, tranne la protagonista, Magda Mercatali, l'unica ad avere capito che andava in scena Cechov, mancavano di una dizione chiara, di un uso attoriale della voce, che gettavano le battute qua e là senza nessuna o pochissima intelligenza del testo, capitombolando sui nomi russi, pronunciando Nietzsche Nice (con buona pace di tutte le regole di pronuncia tedesca), muovendosi in una maniera più consona al teatro di Martoglio che a quello di Cechov.
Quanto alla regia, manifestava lo stesso disorientamento, in un'assoluta libertà degli attori, dove ciascuno faceva più o meno quello che gli pareva, con frequenti virate verso una dizione sporca dietro la quale si sentiva la lunga frequentazione col teatro dialettale. Le scene di Antonio Fiorentino offrivano uno scarno mobilio di plastica o similare, trasparente dai riflessi traslucidi, con cadute dal soffitto di strani tronchi-sacchi di plastica trasparente che, avendo sul fondo una sorta di spesso tondo di metallo, calavano sul palcoscenico secondo una scansione temporale incomprensibile producendo un tonfo pesante, del quale non si riusciva a capire la funzione. Il taglio luci, più o meno chirurgico con un secondo tempo per buona parte funereo e opprimente, completava degnamente uno spettacolo al quale il numeroso pubblico ha riservato poco più che applausi di cortesia.
Giuliana Cutore
22/11/2014
Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.
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