In scena a Roma un Benvenuto Cellini
fantasioso e visionario
È significativo il fatto che un artista come Benvenuto Cellini, rissoso e intemperante, refrattario alla maniera dettata dalla corte medicea, sentisse prepotente l'esigenza di narrare la propria vita con enfasi spiccatamente teatrale, in un libro rimasto a lungo ignoto che vide le stampe solo nel 1728. Un gesto narcisistico volto alla celebrazione del proprio genio, una vorticoso groviglio verbale che sembra voler accogliere in sé tutti i registri espressivi, dal comico all'eroico, dall'aulico al volgare, dal vero al surreale. Nel mettere in musica la vita di questo artista grandissimo ed estremo, Hector Berlioz appare perfettamente consapevole di tutto ciò. Nel Benvenuto Cellini si riscontra infatti una sorta di ambiguità espressiva, un voler accentuare quella dinamica dei contrasti che è già nella narrazione letteraria. Berlioz non si limita quindi ad accogliere il modello dell'eroe romantico, insofferente alle costrizioni, instancabile nella propria onnivora volontà di sapere, consapevole del proprio poliedrico valore, ma vuole penetrare a fondo i caratteri più intimi dell'uomo e dell'artista. La legge della contrapposizione, base della poetica manierista, impregna la sostanza musicale. Da tutto ciò deriva una drammaturgia discontinua, frammentata, peculiare nel suo accogliere contemporaneamente lo stile lirico, il popolare e il comico.
Elementi che spiccano evidenti nella lettura di Terry Gilliam, un nuovo allestimento coprodotto dal Teatro dell'Opera di Roma insieme alla English National Opera e al De Nationale Opera & Ballet di Amsterdam. Sin dall'ouverture il carnevale, simbolo di un tempo altro dominato dal travestimento e dalla follia, invade non solo il palcoscenico ma anche la platea, in una concezione di teatro totale che assume un sapore filmico (e che Gilliam sia un grande cineasta visionario non dobbiamo mai dimenticarlo). La grande mascherata richiama i tratti salienti del protagonista, la contraddittoria natura del suo essere. In quest'ottica il personaggio di Cellini non attinge esclusivamente alla categoria del sublime, ma mostra evidente il proprio lato oscuro. La regia aderisce perfettamente alla narrazione, nei suoi aspetti grotteschi quanto in quelli eroici. I movimenti sono pensati sulla musica, e la seguono dando vita a un perfetto meccanismo teatrale. La scena del carnevale è il culmine di un allestimento dal vitalismo sfrenato, comunque mai sopra le righe. Anche il satiro osceno con enormi attributi rientra nel gioco burlesco e non della ricerca scandalistica a ogni costo. Onnipresente in scena, la colossale testa del Perseo assume il valore di un simbolo, come il volto della statua alata nel Cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Acrobati e giocolieri le roteano intorno, e anche nel film proprio di una trapezista si innamorava l'angelo che era precipitato dal cielo sulla terra. Accostamenti azzardati a parte, lo spettacolo è in alcuni momenti una fantasmagoria di colori, mentre in altri si privilegia il bianco e nero delle incisioni di Piranesi. Insegne luminose squarciano il buio delle carceri, introducendo bagliori di modernità nelle fosche atmosfere cinquecentesche. Tutto funziona, tutto va per il verso giusto mentre il pericolo del kitsch, sempre in agguato nella vulcanica inventiva di Berlioz, viene evitato con intelligenza e sagacia. Anche l'ingresso del papa, più simile a un imperatore orientale che a un severo pontefice, è perfettamente adeguato in uno spettacolo quasi felliniano nella sua fantastica ricchezza. Forse la scena della fusione del Perseo avrebbe meritato qualche invenzione più roboante, qualche magico coupe de théâtre , ma lo spettacolo ha comunque soddisfatto le aspettative.
Buona nel complesso l'esecuzione musicale. Roberto Abbado governa la difficile partitura con stile e sicurezza, levigando ogni dettaglio fino a mostrarne il bronzeo nitore. Mariangela Sicilia delinea una Teresa di puro lirismo, capace nel contempo di abbandoni appassionati. John Osborn veste in maniera credibile i panni dell'irrequieto protagonista. Dal punto di vista vocale risulta meno brillante rispetto al Guglielmo Tell ceciliano, per il quale il pubblico di Roma ancora lo ricorda, ma offre comunque una prova valida. Bravo Nicola Ulivieri nel ruolo di Balducci, mentre appannato risulta il Fieramosca di Alessandro Luongo. Marco Spotti è un Clemente VII autorevole ma dalla voce un poco arida. Bene infine l'Ascanio di Varduhl Abrahamyan. Il pubblico ha mostrato di apprezzare.
Riccardo Cenci
29/3/2016
Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.
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