Barcellona
Allestimento storico
Non è impossibile, bensì difficile, presentare un'opera di Berlioz in una versione – musicale e scenica – soddisfacente. Ma che una ripresa del poco noto e meno apprezzato (a torto) Benvenuto Cellini (solo tre recite allo stesso Liceu quasi quarant'anni fa in tutta Spagna, di poco successo) diventi un trionfo anche al botteghino pare impresa azzardata. Il Liceu ce l'ha fatta. E la risposta è ‘semplice': si è cercato di fare il meglio, a cominciare della produzione già vista all'ENO di Londra e alla Nederlandse Opera di Amsterdam e che si vedrà prossimamente (menomale) all'Opera di Roma. La regìa, ma anche parte delle scene, porta il segno inconfondibile di quell'enfant terrible dei Monty Python che ha nome Terry Gilliam, e quindi eccessiva, eccentrica, fantastica, e parlo in positivo perchè, in piú, si addice perfettamente a Berlioz, alla sua opera, al suo protagonista e anche al Cellini storico. Quando viene magari di chiedersi se non è ‘troppo' (comparse, ballerini, saltimbanchi, effetti scenici, ‘gags', il ‘moto perpetuo'), e se i quaranta minuti tagliati non meritavano un secondo pensiero – il regista ha detto che ad Amsterdam si è fatto ‘tutto' e secondo lui funzionava meno bene – si deve anche riflettere su un piccolo fatto: si poteva rendere migliore servizio alla causa di Berlioz? La risposta è ‘no' perchè gli occhi hanno aiutato – una volta tanto – l'orecchio. Sono sicuro che con un altro allestimento il risultato sarebbe stato ben altro, a dispetto della qualità musicale. Se ti mozzano il fiato dalla fine della sinfonia sino alla fine dell'opera (comunque lunga o lunghetta) e magari qualche volta il palcoscenico diventa padrone e la musica resta un po' indietro, Berlioz riesce a sedurre non meno che Cellini e il suo Perseo. Gli applausi scroscianti sono chiari. Due momenti da rilevare, ma si dovrebbe parlare di tutto: la fine dell'atto primo con quell'incredibile Carnevale romano e tutto il secondo atto, ma soprattutto la fine alla fucina – sicuramente Wagner l'avrebbe invidiato per il suo Sigfrido e magari anche con qualche ‘benvenuto' taglio – e il lavoro sui personaggi, in particolare Papa Clemente VII, quasi una ‘drag queen' che esamina con interesse un certo particolare anatomico del modello del Perseo che, guarda caso, è la parte ingrandita che si vede alla fine per la più grande gioia del Santo Padre.
Ah sí, la musica, dicevo. Josep Pons dirigeva molto bene – forse un po' forte, ma con Berlioz è facile che capiti questo incidente di percorso, poveri cantanti – e una compagine orchestrale che sembrava finalmente in buona forma. Il coro del Teatro, istruito da Conxita Garcia, dopo un primo coro femminile poco azzeccato si mostrava formidabile. Tutti i comprimari erano molto validi, in quello che non è stato tagliato; peccato che Ashley Holland fosse un Fieramosca piuttosto mediocre come canto e solo buffo (troppo) come personaggio. Neanche Maurizio Muraro aveva una serata felicissima: incominciava quasi inudibile il suo Balducci ma progressivamente si faceva ascoltare, compreso un registro acuto insufficiente. Il veterano Eric Halfvarson interpretava con grande senso di ‘humor' l'eccessivo Pontefice, e vocalmente solo in qualche momento si apprezzavano gli anni trascorsi. Molto brava la Teresa di Kathryn Lewis, forse troppo leggera per la parte e con qualche estremo acuto asprigno, ma ottima attrice e buona cantante. Annalisa Stroppa incominciava la sua prima scena un po' tesa ma poi si rilassava e cantava molto bene, in particolare la sua aria del secondo atto, e recitava ancora meglio il suo Ascanio. Ma senza protagonista la gioia non sarebbe stata piena. Per fortuna si trattava del debutto ‘in loco' del più che eccellente John Osborn. Peccato che una produzione così ricca insieme al fatto che questo grande tenore non si dia delle arie e lavori come un membro in più della compagnia non abbia permesso del tutto al pubblico di capire la vera portata della sua interpretazione, non solo delle due arie, ma anche dei recitativi con un fraseggio e una musicalità inappuntabili, di un tale livello da non temere il confronto con il massimo Cellini dei tempi moderni, ovvero Nicolai Gedda. In un'unica recita Adrian Xhema dimostrava la bontà del suo registro acuto e poco più. Del successo si è detto.
Jorge Binaghi
16/11/2015
La foto del servizio è di Antonio Bofill.
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