RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Coltello e scarpina

 

Tutto fuorché una “favola bella”. Anzi, è proprio una favola nera. Francesca Lattuada la vede così, Cenerentola: un percorso iniziatico doloroso, crudeltà ancestrali, colpe remote da cui liberarsi, la cenere non come focolare domestico ma simbolo di sottomissione, un coltello che forse non è solo un attrezzo da cucina, la “bontà in trionfo” del sottotitolo che si traduce nella santificazione della rivolta. E quel “dramma giocoso” che qualifica dell'opera di Rossini? Contrasto solo apparente: se c'è uno spettacolo dentro la musica, dal primo all'ultimo minuto, è proprio questo. Solo che la comicità – qui – resta pura lente narrativa, non spirito del testo. Anche se è evidente come, per la Lattuada, il sostantivo (“dramma”) venga ben prima dell'aggettivo (“giocoso”).

Andato in scena al Teatro delle Muse di Ancona, lo spettacolo è insieme abbacinante e minimalista. Se la scenografia appare pressoché inesistente (pochi oggetti, ma tutti con inequivocabile valore di “segni”, sul nudo palcoscenico), i costumi di Bruno Fatalot sono sontuosamente colorati e vividamente concettuali: quasi siamesi quelli delle due sorellastre (entrambi divisi in due metà, come a voler coagulare un unico abito in due); da Madonna nera – come dire: la beatificazione del “diverso” – quello della protagonista nell'apoteosi conclusiva; curiosamente incompiuto quello di Ramiro, sottolineando così l'immaturità di un principe che riesce a essere tale solo in vesti da scudiero, e sa realizzarsi virilmente soltanto con una sguattera. Resta indimenticabile, poi, quel mascherone-fantoccio di Rossini che si aggira durante la sinfonia estraendo dal panciotto tutti i principali simboli della storia, a cominciare dalla fatidica scarpina. E sebbene la Lattuada sia, innanzi tutto, una coreografa, la sua regia non insiste sulla recitazione corporea né sulla plasticità del gesto: tutto è ricondotto in un alveo di assoluta naturalezza, dove ogni movimento si modella spontaneamente sulla musica, ma senza tentazioni di sovrastruttura coreutica.

Giuseppe Finzi, dal podio, sigla una lettura musicale in salda empatia con la lettura registica. Se da Abbado in poi (ma di Abbado ce n'è stato uno solo…) ci siamo abituati ai Rossini snelli e dinamici, è pur vero che sonorità terse e tempi oltremodo scattanti sarebbero entrati in collisione con questa Cenerentola “al nero”: Finzi, pertanto, sembra incanalarsi su una direttrice preabbadiana e pre-Renaissance (Gui, Giulini, Gavazzeni, ancor oggi Gabriele Ferro), basata su un Rossini dai tempi più spaziosi e dalle sonorità più dense. Ne sortisce una felice dialettica tra orchestra e messinscena, e anche le qualità vocali dei cantanti – tutti giovani o giovanissimi – sembrano risaltare meglio in una cornice strumentale più meditata che scatenata.

Martiniana Antonie è una protagonista ventiquattrenne, ma non acerba: il nucleo colore-volume è già importante, il canto di coloratura dominato con guardinga accortezza. Sia nervosismo o forma non ottimale, la voce arriva un po' stanca al rondò conclusivo, ma il personaggio viene sbalzato con efficacia dall'inizio alla fine: è palese come a questa Cenerentola adolescente e matriarcale, algida e sensuale, rivoltosa e benedicente, casta e forse omicida, il giovane mezzosoprano rumeno ci creda a fondo. Accanto a lei Pietro Adaini è un Ramiro ancora in formazione, proprio come la regista vede il personaggio: se le agilità di grazia del duetto sono perfettibili, s'inerpica con scioltezza e spavalderia nei sentieri sopracuti della grande aria del secondo atto.

Pablo Ruiz plasma un Don Magnifico in sana controtendenza rispetto ai “buffi” rossiniani di oggi: timbrato, robusto, virile, anche se un po' ruvido in certi momenti che si vorrebbero più rotondi e felpati. E pure Daniele Antonangeli è baritono di spessore, che non si lascia travolgere dalla micidiale aria di Alidoro (troppo bassa per i baritoni, ma troppo acuta per i bassi), magari a costo di risolverla in virtù dell'agilità di forza. Più debole il Dandini di Clemente Antonio Daliotti: simpatico dicitore assaporabile con profitto nel repertorio buffo settecentesco, ma impari ai desiderata della mirabolante coloratura che Rossini imprime a questo personaggio.

Quanto alle sorellastre, Giorgia Paci e Adriana Di Paola sono pettegole ed esilaranti comme il faut. E se la prima si limita a questo, che comunque basterebbe, la seconda lascia anche intuire i segni di una vocalità mezzosopranile di rilievo, da riascoltare in cimenti più impegnativi.

Paolo Patrizi

15/10/2018

Le foto del servizio sono di Bobo Antic.