Dalle piramidi… all'Alpi
Il Giulio Cesare in Egitto di Händel
per la prima volta al Teatro Regio di Torino
Torino vanta il secondo Museo Egizio al mondo, dopo quello del Cairo; per giunta, il suo teatro d'opera sorge accanto alla Porta Decumana dell'originale castrum romano (oggi inglobata dentro Palazzo Madama in Piazza Castello): quale coincidenza migliore, quindi, per il regista Laurent Pelly, di presentare, in occasione del primo allestimento torinese del Giulio Cesare in Egitto di Händel, al Teatro Regio, lo stesso allestimento già andato in scena nel 2011, presso l'Opéra Garnier di Parigi? Lo scrivente riferisce della première, del 20/11/2014. Il presupposto: i personaggi, con tanto di costumi romani da una parte ed egizi dall'altra, prendono vita nel deposito di un museo (verosimilmente quello del Cairo, a giudicare dalle maestranze in fez e djellaba: ma potremmo supporre una delegazione di studiosi in visita a Torino), mentre il personale dello stesso, in camice ed elmetto anti-infortunio, non si accorge di nulla, interagendo solo di rado (versione operistica di Una notte al museo, film di Shawn Levy del 2006 dove, sotto gli occhi di un incredulo Ben Stiller, tutto il Museo di Storia Naturale di New York si anima dopo l'orario di visita). Una scelta neanche tanto male, considerando regie più audaci come quella di Patrice Caurier e Moshe Leiser (Haus für Mozart, Salisburgo 2012), dove Cleopatra cavalca un ordigno sulla falsariga del Dottor Stranamore. Un invito a non vedere l'opera come un “pezzo da museo” (o un genere coltivabile solo da un pubblico mummificato o mummificabile?)? Si spera di no, dato che, da quando è nata, l'opera, vivaddio, continua a prosperare in tutto il mondo senza accusare i colpi del tempo. E d'altro canto, l'epoca della genesi del Giulio Cesare in Egitto HWV 17 (1723-1724) è quella dei cantanti-divi (il title role era stato pensato da Händel per il Senesino, un castrato la cui fama era in quegli anni all'apice), che, ben lontani dall'indossare in scena toghe romane, non rinunciavano a stravaganti toelette sovente ben poco coerenti col personaggio interpretato. Via quindi a particolari come un montacarichi, teche da esposizione nelle quali recitano Cesare e Tolomeo (trattati essi stessi da pezzi da museo), reperti, statue egizie (Cleopatra fa il suo ingresso in scena proprio sulla statua enorme di un faraone deposta su un carrello, mentre la «faccia pallida», la «testa mozza» di Pompeo è un grande busto in (finto) marmo trasportato su ruote e assicurato da cinghie), financo un estintore a muro: vien da chiedersi dove sia finito il cartello “Uscita di sicurezza”. La prima parte del II atto, la “scena del Parnaso”, riprende invece i costumi settecenteschi, forse in omaggio alla Galleria Sabauda, pinacoteca fino al 2012 ospitata nel Palazzo dell'Accademia delle Scienze, lo stesso che dal 1824 ospita anche il Museo Egizio: le dame sulla scena, in pizzi e crinolina, si rivelano essere non solo comparse, ma strumentiste, e, suonando direttamente sul palco come un vero complesso da camera del XVIII secolo, riescono a creare suggestivi effetti di eco, di “concertino” e di “ripieno”, rimpallandosi le frasi musicali con Alessandro De Marchi, direttore alla testa di alcuni elementi dell'Orchestra del Teatro Regio (ridotta, secondo i dettami di un equilibrio fonico aderente alla realtà storica e filologica di quest'opera, ad una quarantina scarsa di orchestrali), più alcuni dell'Academia Montis Regalis per la componente squisitamente barocca dell'organico (trombe barocche, corni naturali) e del basso continuo (tiorba, viola da gamba, arciliuto e chitarra barocca, arpa, cembalo), distribuito, quest'ultimo, com'era prassi all'epoca di Händel, non in un angolo, ma ai due lati del complesso strumentale in buca, per effetti stereofonici e timbrici; e, accanto ad una pagoda dipinta di ispirazione storicista (secondo la lezione – anacronistica, in questo caso – assimilabile a quella di Alberto Pasini) a fare da sfondo, scende dall'alto un grande ritratto di Händel sulle parole di Cesare: «fa più grato / il suo cantar», con tanto di dito puntato da parte del contralto Sonia Prina (Cesare) verso il ritratto, a significare ambivalentemente che il suo cantar non è solo quello della sua amata Lidia/Cleopatra, ma quello del compositore stesso.
Il Teatro Regio prevede cinque sole rappresentazioni, tutte nel mese di novembre, con un solo cast. Il già citato contralto Sonia Prina, che dimostra grande facilità per le note gravi, interpreta un Cesare a suo agio nei passaggi più intensamente patetici (magnifico il recitativo accompagnato Alma del gran Pompeo n.8, sia per qualità del testo che per interpretazione), un po' meno nelle agilità delle arie di furore (Empio, dirò, tu sei, n.3). Di alt(r)a levatura è il contralto Sara Mingardo, nel ruolo di Cornelia, moglie di Pompeo e madre di Sesto: è una voce piena, rotonda, in grado di esprimere appieno tutta la gravitas della matrona romana, sconfitta, ma ancora altera nella sua inscalfita dignità, che sdegnosamente rifiuta le profferte di Achilla. Il Sesto del mezzosoprano Maite Beaumont sarebbe chiamato, dalla partitura e dal ruolo, ad essere il vendicatore del padre ucciso, sorta di Amleto ante litteram, ma non ne ha l'indole, e le diverse arie di furore danno l'idea di un cane che abbai ma non morda – beninteso dal punto di vista drammaturgico e non canoro: L'angue offeso mai riposa, n.25, per esempio, è cantata con slancio e perizia, ma i diversi gorgheggi sono sostenuti da un volume vocale modesto. Debutto di ruolo per l'australiana Jessica Pratt, soprano prevalentemente rossiniano e donizettiano (dunque belcantista, ma non specificatamente barocco) chiamato a interpretare Cleopatra. Complessivamente riesce a dare corpo al personaggio con proprietà di espressione; punti di forza sono stati la precisione di alcuni attacchi sovracuti e le arie V'adoro, pupille, n.19, e la delicatissima Piangerò la sorte mia, n.35, capolavoro sopraffino di aria da prigione in cui i pianissimi riuscivano a giungere ancora distinti e toccanti a fondo sala; peccato per alcune disattenzioni, che l'hanno portata all'emissione di note non sempre aggraziate, anche se non di vere e proprie stecche, che hanno però incrinato il livello generale della prestazione.
Due i controtenori: Jud Perry ha dato voce e corpo a Tolomeo, debitamente infantile nel suo comportamento (considerando anche l'età del personaggio storico all'epoca dei fatti, poco più che ragazzino), ma dotato di voce atta al ruolo, non mai deludente lungo i suoi interventi solistici e ben a suo agio nei passaggi di furore isterico: disegna cioè un tiranno dispotico e capriccioso, la cui crudeltà è mutuata dal la sua infantilità. Debuttante nel ruolo, come la Pratt , anche il secondo controtenore, il catanese Riccardo Angelo Strano, che guadagna la scena tutta per sé principalmente all'inizio dell'atto II in Chi perde un momento, aria aggiunta nel 1725 per la ripresa dell'opera e il cambiamento del personaggio da Nireno a Nerina. Che Nireno sia la controparte buffa di questo “dramma per musica” è fuor di dubbio. Poco sensato è stato invece il suo continuo ammiccare, per volere del regista, a movenze effeminate e ridicole (il balletto in an egyptian syile con le strumentiste in abiti di corte). Musicalmente e vocalmente, Strano si disimpegna con eleganza, e stupisce come l'emissione sia potente anche nei recitativi dal fondo del palcoscenico; ma il persistente dar luogo a siparietti che si vorrebbero comici e non riescono ad esserlo disturba, checché si possa pensare dell'intromissione (comunque ammessa e storicamente riscontrabile) di una sottotrama comica in un quadro drammaturgico aduggiato dalla tragedia (un'azione teatrale che inizia con una testa decapitata quale dono di pace non può far sperare tanto bene circa il finale!) Plauso quindi alla totale – e ammirevole – disponibilità di Strano nel sottostare alle non così condivisibili volontà registiche.
Due infine le voci gravi: Guido Loconsolo, baritono, nel ruolo di Achilla, valente nel ruolo e dotato di timbro caldo, nonostante alcune asperità, e Antonio Abete, basso, nel ruolo di Curio. Il “caro Sassone” riporta, con Giulio Cesare in Egitto, la sonorità dell'opera barocca che al Regio di Torino non si ascoltava dal Tamerlano del 1997 (le più recenti le produzioni del Trionfo del Tempo e del Disinganno nel 1998 e dell' Aci, Galatea e Polifemo del 2001 non sono opere vere e proprie): e si auspica che la patina di polvere che giace sui titoli händeliani venga soffiata via più spesso, non solo per un titolo importante come questo (ad oggi il più rappresentato tra quelli anteriori al 1750), che all'epoca sbaragliò la concorrenza a Londra dell'italiano Bononcini, ma anche per produzioni meno note quali il Rinaldo, al quale è stato concesso di recente un minuscolo riconoscimento inserendo l'aria Lascia ch'io pianga tra le soundtracks del film Nymphomaniac del 2013.
Christian Speranza
26/11/2014
Le foto del servizio sono di Ramella&Giannese.
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