RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le molteplici frontiere di Cimarosa

Stendhal sosteneva che Cimarosa e Rossini rappresentano, nella storia della musica, un aureo cambio della staffetta: l'uno concludendo un'epoca, e sublimandola, l'altro dando il via a una nuova era. Il matrimonio segreto messo in scena da Marco Baliani al Teatro delle Muse di Ancona, però, sfuma questi confini e ne scompagina le collocazioni. Grazie pure ai bei costumi di Stefania Cempini, che rimandano a un Ottocento borghese ormai affrancato dal secolo dei Lumi, proietta il capolavoro cimarosiano in un territorio dove la chiarezza e l'euritmia del dramma giocoso settecentesco convivono – fondendosi – con sollecitazioni di altro tipo: l'uso di quattro servi di scena quasi shakespeariani, folletti capaci di creare dal nulla situazioni e ambienti; una surrealtà questa sì a suo modo rossiniana, come la “carrozza umana” che prende vita durante Pria che spunti in ciel l'aurora; l'eternità della finzione teatrale, che non necessita né dell'illustrazione calligrafica né della metafora, ma va semplicemente per “segni” (qui una manciata di sedie ad alta densità semantica, che rimandano a Kantor o a Ionesco).

Come tutti i registi che sono anche attori, Baliani lavora poi tantissimo sulla recitazione degli interpreti. Se i risultati sono esemplari, molto lo si deve all'entusiasmo d'un cast di giovani (unico elemento della generazione di mezzo un commediante nato come Filippo Morace, non a caso il traino della compagnia sul fronte attoriale): alcuni di loro ancora perfettibili vocalmente, ma scenicamente duttilissimi dal primo all'ultimo. Il palcoscenico delle Muse, sulla carta fin troppo spazioso per la vicenda “cameristica” narrata dal libretto di Bertati, diventa così il luogo d'un plastico, inesausto andirivieni motorio e gestuale, anche perché la regia restituisce alla perfezione il dato primario della drammaturgia musicale del Matrimonio segreto: una musica, cioè, che non affianca con puntualità i tempi comici del testo, ma li anticipa.

Mozartianamente consapevole che è l'orchestra – non la vocalità – a delineare il momento scenico e psicologico, Cimarosa è infatti prodigo di introduzioni strumentali alle singole arie, nonché di rapidissimi interludi orchestrali all'interno delle arie stesse, che sono l'autentico motore della comicità di battute e situazioni che seguiranno; e Baliani ce lo ricorda con attacchi tutti in movimento, dove i cantanti (e i quattro proteiformi mimi-danzatori) costruiscono col gesto quanto l'orchestra va raccontando. Il rischio della dispersività sarebbe dietro l'angolo, ma il regista è di mano così sicura da non scantonarvi mai. Mentre a delimitare gli spazi, rendendo ogni dettaglio intelligibile, provvede poi la scenografia elegante ed essenziale di Lucio Diana: un emiciclo circoscritto da tendaggi, che sono altrettanti sipari sul gran teatro del mondo.

A una regia di così forte personalità anche musicale avrebbe dovuto affiancarsi una concertazione altrettanto idiomatica. Per ovvie ragioni anagrafiche il ventiseienne Diego Ceretta non ha ancora acquistato fino in fondo un quid siffatto, ma la trasparenza di molti accompagnamenti e l'abbrivio rapinoso impresso almeno alla prima parte della sinfonia (nel prosieguo si fa strada una leggera uniformità) sono già indice di una bacchetta sensibile e appiombata. Qualche omogeneità di troppo, d'altronde, viene pure dai cantanti: perfino un artista navigato come Morace, di cui non sai se apprezzare più il cesello del dicitore o la scioltezza dell'attore, mostra limiti di polpa e timbro, che rendono il suo Geronimo un po' monotono sul piano coloristico tanto quanto è invece efficace su quello dell'accento.

Il resto del cast ha sul fronte femminile sia i punti forti che l'anello debole. Archiviata la Fidalma – purtroppo deficitaria un po' sotto ogni aspetto – di Mariangela Marini, lo spettacolo anconetano trova in Veronica Granatiero una protagonista molto musicale e, come si conviene a Carolina, piccante senza lasciarlo a vedere; ma ancor più sostanziosa (forse al prezzo di qualche scompaginamento di pesi e contrappesi, trattandosi comunque della “seconda donna”) è Maria Sardaryan, che si porta a casa il maggior applauso della serata al termine dell'aria – nominalmente “di sorbetto”, di fatto assai impegnativa nel suo tempo di Allegro Maestoso – Se son vendicata. Pierluigi D'Aloia è un Paolino simpatico e autenticamente commediante fintanto che il ruolo resta circoscritto nella dimensione dell'amoroso “di mezzo carattere”. Quando però, arrivato a Pria che spunti in ciel l'aurora, il personaggio cambia rotta, virando sull'ornamentazione leggiadra e gli sbalzi dal registro centrale a quello acuto, si fanno strada ancora varie acerbità. Mentre Tommaso Barea mostra il percorso opposto: parte sottotono (la cavatina di Robinson suona piuttosto disinnescata) e cresce nel corso della recita. Ma più che sottolineare pregi e difetti, sicurezze e fragilità, converrà porre l'accento sull'affiatamento complessivo e sul talento di cantanti-attori al servizio dello spettacolo, anziché del proprio compiacimento vocale.

Paolo Patrizi

18/10/2022

La foto del servizio è di Danilo Antolini.