Madama Butterfly
al Teatro Regio di Torino
E pensare che, senza Tosca, probabilmente non avremmo mai avuto Butterfly. Nella primavera del 1900, Puccini esportò oltremanica la sua neonata Tosca, fresca di battesimo il 14 gennaio dello stesso anno al Costanzi di Roma. Si trattenne a Londra per sei settimane, e proprio lì, durante quel soggiorno, in giugno, assistette alla pièce teatrale di David Belasco, quella Madame Butterfly che altro non faceva che adattare per il palcoscenico l'omonimo racconto di John Luther Long del 1898. Per la verità, l'idea originale di un americano che sposa una giapponese più per capriccio che per amore e che, dopo un certo periodo, torna a riprendersi il figlio da lei avuto per allevarlo negli Stati Uniti non è nemmeno di Long, ma di Pierre Loti, romanziere francese col pallino dei viaggi che nel 1887 aveva pubblicato il parzialmente autobiografico Madame Chrysanthème, la cui riduzione librettistica, a firma di Georges Hartmann e Alexandre André, era stata musicata da André Messager (Parigi, Théâtre de la Reinaissance, 21/01/1893). Sia come sia, Puccini non ebbe dubbi: quello sarebbe stato il soggetto della sua prossima opera. Contattò i suoi fedelissimi per il libretto, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, che già gli avevano fornito le parole di Bohème e Tosca, e nel giro di tre anni l'opera fu pronta. Tre anni di scrittura a singhiozzo, interrotta da eventi significativi, il matrimonio con Elvira Bonturi, con la quale conviveva more uxorio dal 1884, e l'incidente d'auto del 25 febbraio 1903, che lo costrinse a letto con una gamba rotta per diversi mesi. Il completamento dell'opera, il 27 dicembre di quel 1903 così cruciale per Puccini, equivalse a un sospiro di sollievo. Ma quando l'opera fu presentata alla Scala, il 17 febbraio 1904, venne accolta da una tale marea di fischi, da indurre il compositore a ritirarla dalle scene. Ma Puccini non si diede per vinto. Sottopose la partitura a un intenso labor limæ, e il 28 maggio 1906 al Teatro Grande di Brescia il successo fu immediato. La «tragedia giapponese in due atti e tre parti» sbarca a Torino come quarto titolo del cartellone del Teatro Regio nel mese di gennaio 2019. Per l'occasione, il gradito ritorno di un direttore del calibro di Daniel Oren, assente dalla piazza torinese da circa un ventennio (una delle ultime collaborazioni fu per la storica Bohème del 1996 con Luciano Pavarotti e Mirella Freni), ha permesso di riscoprire tutta la ricchezza della scrittura pucciniana. Si tratta di una lettura cerebrale, dove ogni utilizzo dei «temi reminiscenza» viene sottolineato e marcato in orchestra: e questo sia detto non a detrimento, ma come nota di merito, poiché una direzione lucida, che tenga presente quasi ogni istante che Puccini è da vedere come l'epigono italianizzato di Wagner, lontano dal patetismo di certe frange veriste operistiche primonovecentesche, è sempre più spesso una rara avis. Una direzione musicale in tutto e per tutto, che dona il giusto risalto alla componente sinfonica pucciniana, che non nasconde i timbri talvolta decisamente acidi delle trombe con sordina e che soprattutto, in un'opera ad alto tasso di emotività come questa, resta scevra da ineleganti gigioneggiature, lasciando che sia la musica a parlare da sé e amalgamando anche i passaggi più conosciuti (Un bel dì vedremo; Tu, tu, piccolo Iddio) nel tessuto continuo dal quale si innalzano come naturali proseguimenti della melodia, anziché come arie staccate a numero chiuso. E se qualche appunto di deve fare, si può al massimo rilevare una leggera copertura dell'orchestra sulle voci, limitata a pochissimi passaggi (episodio dello Zio Bonzo).
Se il côté direttoriale si è dimostrato impeccabile, coadiuvato anche dall'Orchestra del Teatro Regio che come al solito non delude, altrettanto non si può dire di quello degli interpreti. Il secondo cast, in scena venerdì 11 gennaio 2019, annovera un Massimiliano Pisapia, già tenente Pinkerton nell'ultima ripresa torinese del titolo (febbraio 2014), che, allora come adesso, continua a non convincere. L'ingresso in scena è piatto, la voce è fredda e tale rimane per tutta la parte più spiccatamente dialogica del primo atto, iniziando a scaldarsi solo al duetto con Cio-cio-san. Discontinua è poi l'emissione, quasi sempre di gola, a parte nelle note più impegnative («A chiacchiere costei / mi pAr cosmopolita», «DovUnque al mondo...», ecc.), in cui utilizza il registro di testa. Il console Sharpless di Fabio Maria Capitanucci è quasi privo di legato, procede a scatti e non rende giustizia al personaggio, che pare continuamente contrariato. Migliora nel secondo atto, alla lettura della lettera di Pinkerton, dove la linea vocale si fa più morbida. Controbilancia a dovere la parte femminile del cast. Rebeka Lokar, prevista per la seconda compagnia, è stata sostituita da Karah Son, della prima. La Cio-cio-san del soprano coreano, non nuovo nel ruolo della fragile farfalla giapponese, è dotata di voce lirica, morbida, calda, proiettata con efficacia: proprio per questo non si capisce come mai, a tratti, riesca a farsi fagocitare dall'orchestra, dalla quale poi riemerge con disinvoltura. Risolti senza sforzi apparenti anche i passaggi più impegnativi, soprattutto nel finale. Buona, senza eccedere nell'enfasi dell'interpretazione, la prova di Sofia Koberidze come Suzuki.
Il livello torna a scendere parlando del principale dei ruoli minori, il Goro di Luca Casalin, nasale e caricaturale tanto nel modo di cantare, quanto nelle movenze stereotipate – i passi corti e affrettati con cui suolsi dileggiare l'orientale. Fa eccezione il corretto e non melenso Yamadori di Paolo Maria Orecchia. Completano il cast In-Sung Sim (Zio Bonzo), Franco Rizzo (Commissario imperiale), Ivana Cravero (Kate Pinkerton), Marco Tognozzi (Zio Yakusidé), Riccardo Mattiotto (Ufficiale del registro), Claudia De Pian (Madre di Cio-cio-san), Rita La Vecchia (Zia di Cio-cio-san), Ashley Milanese (Cugina di Cio-cio-san) e Francesco Sansalone (Dolore, il figlio di Butterfly).
La regia, le scene e i costumi, a firma di Pier Luigi Pizzi, non hanno mancato di riportare a nuova vita, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'annosa questione regia didascalica versus regia innovativa. All'ultimo ipermoderno allestimento di Madama Butterfly presentato a Torino, quello già citato del febbraio 2014 di Damiano Michieletto, si contrappone, a distanza di anni, questo di Pizzi, molto più prevedibile e tradizionale: scena fissa, con la casetta in stile (pareti scorrevoli, tetto vagamente a pagoda) al centro, passerelle in legno rialzate tutt'attorno, a guisa di ponti, e un ciliegio sulla destra. Certo, considerando che venne concepita per lo Sferisterio di Macerata (nel 2009), questa scenografia ha una resa visiva meno d'impatto, e il monocromo grigio-beige pastello che domina «da terra fino al tetto» non aiuta, non fosse per le luci di Fabrizio Gobbi. Si possono muovere giuste critiche a una regia oleografica, a una visione statica e stereotipata di quest'opera, con l'unica innovazione del coro a bocca chiusa cantato in scena da coristi velati (Coro del Teatro Regio di Torino istruito da Andrea Secchi, sempre una garanzia) e una coppia di ballerini (Letizia Giuliani e Francesco Marzola, anche coreografo) a danzare sulle note dell'intermezzo: il sogno/rievocazione di una Cio-cio-san tra sonno e veglia, lui vestito da marinaio, lei da giapponese. Ma si pensi alla difficoltà di gestire un vuoto d'azione di sette-otto minuti per un pubblico abituato ai ritmi frenetici del quotidiano e psicologicamente distante dal tristaniano «silenzio sonoro», al tempo che scorre nella mente dei personaggi: la trovata è ottima, se non altro come riempitivo (anche se per i melomani puri, dell'intermezzo, come del coro, si gode al meglio a occhi chiusi). La tradizione più rigida eliminerebbe questo elemento non previsto e distraente. Ma a voler essere pignoli con la fedeltà e l'iconografia, ciò che più stride dovrebbe essere il suicidio rituale di Cio-cio-san, nel quale Pizzi fa intervenire Suzuki per sferrare il colpo di grazia. Ebbene, il suicidio rituale femminile, jigai, non contempla per forza la presenza di un'assistente, e prevede una coltellata al collo, non all'addome, come si infligge Cio-cio-san sulla scena (nell'originale il tutto è compiuto dietro un paravento, per cui la cruenza della scena è evitata). Quella, semmai, è tipica della sua versione maschile, il seppuku – e si sa quanto i giapponesi siano oltremodo legati a rituali e convenzioni. Ma si resta dell'avviso che una regia del genere sia nel complesso molto più in sintonia con i desiderata dei librettisti, gli unici, che, a quanto risulta, abbiano lasciato testimonianza scritta di quanto debba essere inscenato. Di questo passo, se le scene suggerite dal libretto vengono rigettate dal regista, verrà il giorno in cui il libretto stesso non verrà più ritenuto adeguato – quale cosa è più soggetta ai cambiamenti d'epoca che il linguaggio? Ammoderniamo dunque, ammoderniamo! «Un bel dì vedremo» il direttore cambiare anche le note delle partiture?
Christian Speranza
21/1/2019
Le foto del servizio sono di Edoardo Piva.
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