Più classico di così...
Se il primo dei due appuntamenti dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) dedicato al Settecento (23 e 24 marzo) si focalizzava su compositori satelliti del Classicismo, quello del 30 e 31 marzo 2023 si è concentrato su due stelle di prima grandezza, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Joseph Haydn, con due delle loro sinfonie più rappresentative: la nº39 in mi bemolle maggiore KV 543 del primo e la nº45 in fa diesis minore Hob:I:45 del secondo. Si tratta di due colonne portanti del sinfonismo settecentesco e due brani irrinunciabili della cosiddetta “musica classica” sensu stricto: quando poi vengono dirette da un esperto di questo repertorio, Ottavio Dantone, riescono a dare veramente l'idea del perché vengano definite “classiche”: classiche perché intramontabili e, piaccia o meno, punto di riferimento e metro di confronto di ciò che è venuto prima e ciò che sarebbe venuto dopo.
La KV 543 è anche detta Schwanengesang, il canto del cigno, perché fa parte della triade conclusiva delle sinfonie mozartiane (talvolta il soprannome si riferisce alla triade in blocco): tre sinfonie di carattere molto diverso, la 39, equilibrata e tersa, la 40, che nel Romanticismo ha fatto sottolineare il lato oscuro di Mozart, la 41 “Jupiter”, solare e magniloquente. Tutte e tre nacquero nel giro di due mesi, nell'estate del 1788. A differenza di altre celebri sinfonie con una destinazione precisa – la Parigi, KV 297, come biglietto da visita per il pubblico parigino, la “Praga” KV 504, per ringraziare i Praghesi dell'accoglienza calorosa dopo il Figaro, ecc. –, sembra che queste sinfonie non siano state scritte per un'esecuzione pubblica, o almeno non che si sappia. Pur fecondo sul piano artistico, il 1788 fu un anno economicamente problematico per Mozart; è possibile quindi che le abbia composte in vista di un eventuale concerto (o “accademia”, come si diceva all'epoca), oppure come espressione personale, quasi diario intimo. Sia come sia, si tratta di una delle massime espressioni di razionalità ed equilibrio della sua produzione, quasi che le difficoltà economiche siano state sublimate nella pura bellezza della forma (e del contenuto).
Più documentata è la genesi della nº45 di Haydn, del 1772. Essa condivide con la 44 la tonalità minore – cosa inconsueta nelle sinfonie haydniane – e una dichiarata aderenza alla corrente dello Sturm und Drang, caratterizzata da accesa passionalità preromantica e andamento inquieto. Ma la scelta di un'espressività così sofferta è alla base, per Haydn, di una delle sue geniali uscite bonarie. Si racconta che il principe Nikolaus von Estherázy fosse talmente amante della musica, da non concedere quasi mai vacanze o permessi ai suoi orchestrali, i quali vivevano a palazzo ma le cui famiglie erano alloggiate ad Eisenstadt. Haydn allora scrisse questa sinfonia in cui è previsto che, dopo tre movimenti e mezzo di concitata agitazione, a metà del quarto si apra un Adagio in cui pian piano l'orchestra si assottiglia, finché rimangono a suonare soltanto due violini (alla prima esecuzione, uno suonato da Haydn stesso, l'altro da Luigi Tomasini). Gli altri orchestrali, intanto, senza far rumore, si saranno alzati e se ne saranno andati, spegnendo la candela sui loro leggii (da qui il soprannome di “Sinfonia degli addii”). Si narra che il principe fu così divertito della trovata, da concedere la tanto agognata vacanza premio. Così, chiosa Ernesto Schiavi, nella presentazione video del concerto, possiamo annoverare Haydn come primo sindacalista della storia!
Dal podio, Ottavio Dantone offre letture convincenti e personali. Si parte con l'introduzione della KV 543, marcata Adagio da Mozart. L'introduzione lenta, quasi marchio di fabbrica di Haydn, non era praticata spesso da Mozart, che la riservava solo alle sinfonie più significative – stupisce quindi ancor più che venga usata qui, in una sinfonia, come si diceva, apparentemente senza destinazione pubblica –: l' Adagio viene inteso qui in modo piuttosto sostenuto, rinunciando alla magniloquenza, scandita anche dai timpani, a favore di una condotta più austera e senza fronzoli. Allontanato il mood della sezione lenta dell'Ouverture del Flauto magico, con cui condivide la tonalità d'impianto, mi bemolle, da sempre votata alla solennità, la velocizzazione del tempo si estende al successivo Allegro, il vero primo movimento della sinfonia, pulsante, vitale, acceso e brioso, sebbene talvolta tendente al frenetico. L'esposizione è ritornellata comme il faut, c'è equilibrio e chiarezza di intenti, peccato solo per questa precipitosità che travolge senza dare il tempo di mettere a fuoco le diverse bellezze (che in effetti risultano un po'… confuse …) del movimento, uno di quei movimenti in cui non è tanto importante la scansione in primo tema, secondo tema, ecc., quanto la coerenza del discorso nel suo insieme, che si apre già a una forma tritematica (come sarà nel primo movimento della “Jupiter”) per il cui sviluppo completo si dovrà attendere niente meno che Bruckner.
Le acque si calmano nell'Andante con moto, che, senza adagiarsi su mollezze pateticheggianti, in questa lettura si caricano di toni caldi e lievemente malinconici, soprattutto nelle sfumature già schubertiane del tema principale volto in minore (e siamo già in pieno Romanticismo in quel fugacissimo la bemolle minore). Il movimento scorre bene, gonfiandosi moderatamente nei momenti di maggior enfasi ma conservando la sua nobiltà di fondo. Il tempo di averlo interiorizzato, e tosto attacca il Minuetto. Minuetto che, per essere marcato Allegretto, torna di nuovo a correre, risultando parecchio mosso; ma, se nessuno può avere la verità in tasca sapendo come Mozart avrebbe voluto quell'Allegretto, cosa che può dare il beneficio del dubbio facendo rientrare questa lettura in una gamma di interpretazioni condivisibili o meno, di certo Mozart non avrebbe voluto che, nel coinvolgimento dell'orchestra, i timpani coprissero il resto degli strumenti, come qui si è registrato. A fronte di ciò, la sinfonia viene conclusa dall'Allegro finale all'insegna della misura, che ne fa il movimento meglio eseguito dei quattro. Tempo giusto, dinamiche corrette, ritornelli anche qui eseguiti per intero (il finale è organizzato in due sezioni entrambe ripetute, come una Sonata di Scarlatti o il finale della “Jupiter”): tutto ciò concorre a offrire tratti di olimpica serenità, nonostante il moto perpetuo in quartine di semicrome, con quel motto in 2+4 che anticipa già il finale della Settima di Beethoven, porterebbe, qui sì, a una lettura dove il brio estremo sarebbe ancora una volta inappropriato.
Haydn richiede un organico più snello rispetto a Mozart: per eseguire “Gli addii”, via trombe e timpani della Schwanengesang, via il flauto, i clarinetti (sostituiti dagli oboi) e uno dei fagotti e, intelligentemente, via anche uno dei contrabbassi, gli strumenti destinati a reggere l'armonia e quindi determinanti per la massa degli archi. Passano da quattro a tre, e, grazie anche a un suono probabilmente aiutato a direzionarsi meglio dai pannelli fonoriflettenti alle spalle dell'orchestra, presenti anche nel concerto scorso, la seconda parte della serata prende avvio con l'Allegro assai, dapprima con una leggera impennata dei fiati a coprire gli archi, che in questa composizione ancora reggono quasi autonomamente il discorso, ma poi si regolarizzato su una accesa e appassionata cantabilità dei violini, travolgenti come una folata di gelido vento invernale che spalanchi una porta. Si segnalano gli effettistici crescendo-diminuendo e un suono arrestato con precisione meccanica al termine dei vari passaggi. Come già nel caso di Mozart, anche qui il tempo lento, Adagio, e il Minuetto, Allegretto, corrono con eccessiva speditezza, ma ciò non impedisce al primo dei due di trasformarsi pian piano in una sorta di scandaglio psicologico di insospettata profondità, che lo affranca dalla sua funzione di mera intercapedine tra due movimenti veloci. È il preludio degli Adagi beethoveniani di più ampio respiro.
È però nel finale che Dantone e l'OSN si superano. Senza tema di apparire esagerato, qui si recupera il significato originario di “orchestra”, intesa come zona del teatro greco-romano dove avvenivano le evoluzioni del coro danzante: non è sufficiente ascoltare, qui l'esecuzione si deve anche vedere. Chi non fosse preparato non avrà notato fin dall'inizio le lucine blu sui leggii. Chi invece, come chi scrive, sapeva che cosa aspettarsi, ha rinunciato a una parte della sorpresa ma non al fascino che essa ha comportato. Il flusso impetuoso del Presto in 2/2, fa diesis minore, si interrompe su una pausa coronata: e quando attacca il più grazioso Adagio in 3/8, la maggiore, quasi trio di un minuetto, le luci in sala si abbassano, permettendo ai led sui leggii di spiccare. Poco dopo, il primo oboe e il secondo corno se ne vanno, poi il fagotto, il secondo oboe, il primo corno. È la volta degli archi, prima i bassi poi i celli. Dantone fa un gesto come a dire: «Be', visto che se ne vanno tutti, me ne vado anch'io»: scende dal podio e si accomoda in prima fila, mentre le luci di sala si affiocano ancora. Escono anche i violini secondi, mentre la tonalità è approdata a fa diesis maggiore, la tonalità con cui Mahler darà l'addio al mondo. Lascia anche la prima viola. Rimangono i due primi violini, col loro tenue lumicino. Si può essere più stupidamente sentimentali a pensare a «e il suo nido è nell'ombra, che attende, / che pigola sempre più piano», come le luci che pian piano si spengono? E si spegne anche la musica, come un carillon scarico, prima che il silenzio venga riempito dagli applausi e la sala dalle luci.
Christian Speranza
18/4/2023
La foto del servizio è di PiùLuce.