RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


L'eterno ritorno dell'eguale

Dopo il Socrate di Cerami, la Clitennestra di Vincenzo Pirrotta in scena alla Sala Verga dello Stabile di Catania non poteva non destare in noi un'estrema perplessità e una profonda preoccupazione per la sorte della sposa di Agamennone: una rivisitazione poco accorta di tale signora avrebbe potuto produrre effetti disastrosi, tali da farla tornare a gambe levate nel sepolcro nel quale dorme da più di tremila anni. Comunque, il ruolo eponimo era stato affidato ad Anna Bonaiuto e, data la sua levatura attoriale, c'era già da sperare qualcosa di totalmente diverso, o almeno, in caso di un copione carente, di vedere agire sul palcoscenico un'attrice nel senso più pieno del termine, cosa più che mai rara in questi tempi e nell'ultima stagione dello Stabile di Catania in particolare.

Bisogna dire innanzitutto che Pirrotta ha fatto un buon lavoro, e soprattutto che ha offerto una rivisitazione del personaggio abbastanza originale, intrigante e potenzialmente gravida di riflessioni: Clitennestra, tornata in terra dopo tremila anni, quindi più o meno ai nostri tempi, datando la sua morte intorno al 1100 avanti Cristo, trova la sua Argo schiava del delirio di onnipotenza e di personalità di Oreste ed Elettra, autoproclamatisi dei, e che hanno istaurato sulla città un dominio assoluto e disumano, in forza del quale gli abitanti vivono in una sorta di ghetto, separati dai due fratelli per tutto l'anno, tranne per un solo giorno, coincidente con l'epifania di tali sedicenti dei e col sacrificio di un bambino. A ribadire la separazione, le Erinni, divenute cagne, sbranano chiunque osi avventurarsi nella città proibita, residenza dei due fratelli e dei loro accoliti, più o meno una casta sacerdotale che vive in un lusso sfrenato.

Divisa in tre movimenti, corrispondenti ai tre luoghi in cui dopo tremila anni è divisa Argo, la pièce presenta, almeno nelle intenzioni dell'autore, notevoli affinità con la tragedia greca, soprattutto per la preminente funzione di un coro femminile nel primo e nel secondo movimento; forse era anche nelle intenzioni di Pirrotta rispettare l'alternanza di lingua tra attore e coro, dato che quest'ultimo recitava in dialetto dorico, e solo in questo senso potrebbe giustificarsi l'uso del siciliano nel coro, anche se poi, quando prende la parola la corifea, la lingua torna ad essere, contraddittoriamente, l'italiano. Questo è stato uno dei punti più deboli del lavoro, e per un duplice motivo: innanzitutto perché spezzava la mimesis tragica, resa in maniera magistrale dalla Bonaiuto e dall'italiano aulico nel quale recitava. Secondariamente contraddiceva la premessa temporale del dramma: all'inizio Clitennestra dice di essere rimasta nell'Ade tremila anni: giusto, e giusto il suo linguaggio aulico, ma allora, il coro, che rappresenta l'oggi del Terzo Millennio, dovrebbe parlare in un italiano standard, più o meno quello dei telegiornali, asettico e chiuso ad ogni influenza vernacolare. In tal modo si sarebbe salvata la dicotomia linguistica della tragedia greca, e soprattutto lo stacco temporale tra la protagonista e il coro avrebbe avuto ben maggiore pregnanza, oltre a rendere il lavoro, meritevole sotto molti aspetti, di una diffusione al di là dello Stretto.

Tale discrepanza linguistica strideva ancora di più nel secondo ma oltremodo nel terzo movimento, dove agivano le Erinni e poi un coro di Sacerdotesse, paludate in abiti che ricordavano molto gli abiti lucenti di Kyrt delle Dame e dei Signori ne Le correnti dello spazio di Isaac Asimov, romanzo che è costruito sulla stessa separazione tra una casta di diseredati e una casta dominante, appunto le Dame e i Signori, che abitano una Città Alta totalmente preclusa, con mezzi ben cruenti, alla Città Bassa dei paria. Tutto il lavoro, del resto, sembra aver tratto notevole alimento da quel filone fantascientifico che divide, in un futuro lontanissimo, l'umanità in caste isolate, tenute a freno o da un sistema di propaganda, o da una vera e propria ingegneria genetica, come ne Il mondo nuovo, dove la religione tradizionale è stata sostituita da un culto della scienza ben politicizzato e propagandato, che ha il suo dio supremo in un certo Ford.

Molto interessante, il terzo movimento offriva una perfetta esemplificazione del delirio di onnipotenza delle dittature, siano esse religiose o meno: i toni di Oreste ed Elettra ricordavano alla lettera certe chiacchierate da Palazzo Venezia del Duce, le urla scomposte di Hitler e in ultimo anche tanti sproloqui dei nostri politici, tesi a giustificare l'ingiustificabile, a mettersi sotto i piedi anche la logica più elementare, fascinando le folle con bei discorsi che, oggi come ieri, celano solo la bramosia avida del potere.

Una rivisitazione di buon livello, con un testo che svelava qua e là alcune ingenuità didattiche di matrice vagamente brechtiana, volto a mostrare ostensivamente più che ad insinuare dubbi: senza la magistrale interpretazione di Anna Bonaiuto, che ha letteralmente incatenato l'uditorio con la sua mimica statuaria e l'eccellente dizione, infondendo alla pièce una drammaticità ieratica veramente di stampo greco, avrebbe però svelato impietosamente non solo la sua natura di pastiche erudito, ma anche e soprattutto la frammentarietà, e talvolta l'incongruenza di un testo costruito principalmente in vista di una grande protagonista che sola può illuminarlo dall'interno e far dimenticare la non novità di tali esperimenti teatrali.

Giuliana Cutore

25/5/2015