Musa, seduttrice, madre
Musa seriale che con sensualità magnetica ispirò i maggiori artisti e intellettuali del suo tempo, ma pure seduttrice senza scrupoli nel manipolare quei medesimi grandi uomini, Alma Mahler fu madre sfortunata e, a detta di molti, snaturata: dai giganti della musica, dell'arte e della letteratura che sposò, o di cui divenne amante, ebbe quattro figli – cinque, a voler considerare un aborto cui intese sottoporsi – di cui solo la ribelle Anna sopravvisse all'infanzia e all'adolescenza. Ma se sull'Alma Mahler mantide sessuale e arrivista libertaria sono stati versati fiumi d'inchiostro, sull'Alma “Mater” si è discettato assai meno, al di là del pettegolume viennese che stigmatizzava la sua mancanza d'istinto materno e lo scandalo di non aver presenziato al funerale della diciottenne figlia Manon. Colma quindi una lacuna la première mondiale – pochi giorni fa, alla Volksoper di Vienna – dell'opera in cinque atti Alma, composta dall'israeliana Ella Milch-Sheriff (classe 1954, un ampio catalogo strumentale e vocale alle spalle) su un libretto costruito con grande maestria da Ido Ricklin, tanto da potersi considerare un testo letterario che potrebbe vivere di vita autonoma. Il focus, qui, più che sulla sua “arte di farsi amare” da Mahler come da Gropius, da Oscar Kokoshka come da Franz Werfel, è sull'incapacità di amare i propri figli; o, almeno, sulla convinzione – scandalosa per la Vienna d'inizio secolo scorso – che l'istinto materno è frutto di cultura piuttosto che di natura.
Ecco dunque l'adolescente Manon, avuta dal matrimonio con Gropius, costretta dalla mamma a diventare una sorta di giocattolo sociale di rappresentanza, al punto che la morte per poliomielite verrà vissuta dalla ragazza come una liberazione; ecco l'infante Martin (padre incerto: forse Werfel) morire in totale solitudine all'ospedale all'età di un anno, perché la madre è troppo presa – al Bauhaus, dove si trova Gropius – a svolgere le proprie funzioni di musa inquietante; ecco il “bambino mai nato” (un patente riferimento alla Donna senz'ombra di Strauss e Hofmannsthal) frutto abortito della relazione con Kokoshka reclamare inutilmente il proprio diritto alla vita, in quella che è forse la scena più geniale dell'opera; ecco la piccola Maria spegnersi per difterite a cinque anni, mentre Alma non trova di meglio che incolpare della morte il padre, Mahler, che ha da poco composto i Kindertotenlieder, dunque un lavoro che – assai poco propiziamente – racconta di bambini morti. Ecco infine l'unica sopravvissuta, Anna: secondogenita mahleriana, innamorata della figura paterna (sarà una rinomata scultrice e per tutta la durata dell'opera la troviamo, silenziosa testimone degli eventi, a modellare il busto del padre) e in perenne conflitto con la madre. Diventandone il giudice ostile, ma anche un'attenta investigatrice psicologica.
D'altronde siamo negli anni della nascente psicanalisi, oltre che della Secessione Viennese. Sicché pure lo spettatore fa presto a comprendere come l'atteggiamento anaffettivo verso il sangue del proprio sangue sia, per Alma, soltanto una differente elaborazione del lutto: quello nei confronti della rinuncia alla sua attività di compositrice. Un'abdicazione che – con la mediocrità talvolta mostrata dagli uomini di genio nella vita quotidiana – le fu imposta da Mahler, desideroso di avere accanto una donna capace di annullarsi nella musica da lui composta. Credette che la scalata apertale dal matrimonio con un grandissimo direttore-compositore avrebbe compensato la perdita di una carriera artistica autonoma, ma sbagliò i conti. E il rogo (immagine assai operistica, tra l'altro) che, nel sottofinale, fa delle proprie composizioni è davvero un atto autodistruttivo: la soppressione di quelle che – prima dei figli stessi – riteneva le sue autentiche creature.
Costruito a ritroso, il libretto parte dal 1935, con un'Alma cinquantaseienne che si nega al funerale di Manon barricandosi in casa con qualche bicchiere di troppo. Prosegue poi con progressivi flash-back, dove la protagonista è sempre più giovane e la figlia Anna sempre più piccola (ma in scena – sapiente mix di finzione teatrale e terapia psicanalitica – il soprano Annette Dasch e il mezzosoprano Annelie Sophie Müller mantengono sempre lo stesso aspetto); fino ad un ultimo atto, ambientato nel 1901, dove la ventiduenne Alma Schindler accetta di diventare Frau Mahler. Tranne quello conclusivo, ogni atto è scandito da un figlio: dal fantasma di Manon (soprano lirico, è l'eterea Lauren Urquhart) alla piccola Maria (affidata a una bambina-figurante), passando per l'infante Martin e il feto del figlio mai nato. Questi ultimi vengono icasticamente affidati a un controtenore e un soprano acuto: sono Christopher Ainslie, la cui vocalità penetrante è speculare alla sofferenza del piccolo abbandonato, e Hila Baggio, dal canto capace d'una ossimorica “fantasmatica matericità”. Anche se i momenti più densa dialettica canora derivano dagli scontri tra madre e figlia, grazie al canto teso ed espressivo della Dasch e a quello più cameristico della Müller (nonché alle loro fisicità: l'una matura eppure carnalissima, all'occasione anche atletica, l'altra più giovanile ma sempre molto composta).
È la spia d'una grande attenzione della Milch-Sheriff alla dimensione vocalistica, che ritroviamo pure nei personaggi maschili: restituito nella sua dimensione grigia e quotidiana, Mahler ha un'ordinaria voce di baritono, che Josef Wagner trasmette con tetragono controllo. Al tormentato, patologico Kokoschka viene impressa invece una scrittura bassobaritonale, che lascia convivere la solidità di emissione richiesta a un cantante protagonista al fraseggio sopra le righe proprio dei caratteristi: Martin Winkler, mezzi robusti e artista autentico, giunge alla quadratura del cerchio. Brutto e grasso, ma a letto più in gamba di tutti, Werfel è tenore acuto nel senso novecentesco-espressionista del termine, cui Timothy Fallon dà perfetta raffigurazione scenica e vocale. Quanto a Gropius, ruolo muto, è un danzatore (il dinoccolato Florian Hurler): ottima scelta per dar vita a questo genio dell'architettura, che musica e libretto plasmano facendogli volteggiare linee geometriche nello spazio.
Il versante strumentale appare forse meno approfondito di quello canoro, come se la compositrice avesse voluto privilegiare la parola scenica di questo libretto densissimo. Ne scaturisce una colonna sonora elegante, impreziosita da ritmi di danza e ricca di reminiscenze innanzitutto mahleriane, ma pure di altra provenienza, che la direzione di Omer Meir Wellber sciorina con precisione infallibile: impressionante la citazione del “Contessa, perdono” dalle Nozze di Figaro, che Wellber e l'orchestra della Volksoper caricano di densità sinfonica, proprio come faceva Mahler quando dirigeva il capolavoro mozartiano. E anche la regia di Ruth Brauer-Kvam non tenta di sovrapporsi al testo, realizzando uno spettacolo disturbante e poetico, che deve molto ai costumi di Alfred Mayerhofer (l'infelice Martin, benché con un solo anno di vita, vestito come un sottomesso studente di college ) e alle scene di Falko Herold, fatta di pochi elementi ad alta densità semantica: dal busto in progress di Mahler al pianoforte inteso come lettino per amplessi selvaggi. Fino al trenino-giocattolo (ma di grandissime dimensioni) con locomotiva a forma di teschio, che cadenza la morte di ciascun figlioletto: un segno visivo che sembra quasi rinviare al teatro di Nekrosius.
Paolo Patrizi
7/11/2024
La foto del servizio è di Barbara Pálffy.