Il compianto universale
Vi sono composizioni, nella storia della musica, che trascendono il dato puramente oggettivo od occasionale della loro nascita, estendendosi ad abbracciare, nella riflessione che propongono, l'intera umanità. Tale è l'Ottava Sinfonia in do minore Op. 65 di Dmitrij Dmitrevic Šostakovic, eseguita dall'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) sotto la direzione del suo direttore principale, Juraj Valcuha, durante il dodicesimo concerto della stagione, giovedì 26 e venerdì 27 febbraio, data, quest'ultima, di cui riferisco.
La serata si è aperta con il Requiem per archi di Toru Takemitsu, una sorta di preludio in grado di preparare spiritualmente l'ascolto della ben più massiccia e complessa sinfonia di Šostakovic; il concerto si è svolto senza pause, immergendo così l'uditorio in un coinvolgimento totale. Ha stupito constatare numero di poltrone vuote all'auditorium Arturo Toscanini, più alto del solito – cosa da imputare esclusivamente alla scarsa notorietà dei brani in programma, non certo alla loro (presunta) mancanza di fascino; eppure, spesso fra i brani meno noti si celano tesori musicali impensabili. Prendiamo per esempio il Requiem per archi di Takemitsu, composizione di poco più di dieci minuti datata 1957 (che all'epoca colpì, e non poco, niente meno che Stravinskij) e dedicata alla memoria di Fumio Hayasaka, maestro dello stesso Takemitsu: un torso unitario e densissimo, scritto per la sola sezione degli archi, che dà, nel suo continuo avvolgersi su se stesso, quasi espressione di una logica hegeliana, l'impressione di volute di fumo che si inerpicano su per invisibili gradini d'aria: un unico tema variamente ripreso, di scarsa orecchiabilità ma che permette alla mente dell'ascoltatore di lasciarsi andare ai più diversi pensieri, dilatando la durata (percepita) del brano in sé. Sembra, anzi, quasi esso stesso la rappresentazione musicale di un pensiero, che si dirama e assume forme diverse, pur restando sempre il medesimo, variazioni attorno a un'unica idea: musica per una meditazione, come può essere quella in ricordo di una persona scomparsa, e dunque pregna di raccoglimento. Raccoglimento, però, stemperato in parte dalla lettura di Valcuha, che preferisce ammorbidire gli scabri contorni delle linee melodiche, conferendo a tutta la composizione una dolcezza, forse non richiesta, che contrasta con l'asciuttezza della scrittura e col mood generale della composizione. Tecnicamente, si rileva la compattezza delle diverse sezioni degli archi, mentre un apprezzamento a sé va agli interventi solistici di Luca Ranieri (prima viola) e Roberto Ranfaldi (primo violino), dallo splendido vibrato.
Pochi minuti, giusto il tempo per far prendere posto ai fiati e ai percussionisti, e si è pronti per l' Ottava di Šostakovic. Qui il dramma prende vita. Non è più un Requiem per un'unica persona scomparsa, ma un compianto universale per tutti i caduti della seconda guerra mondiale, un monumento funebre ai caduti di tutte le guerre (un monumento funebre all'uomo e alla sua pazzia…), che vide la luce nel 1942/43, a ridosso della più famosa Settima Sinfonia Op. 60 “Leningrado”, con la quale forma una sorta di dittico antitetico. Che cosa poteva in effetti scaturire dalla penna di un compositore che aveva orrore anche solo a leggere una scena di violenza su un animale in un libro, di fronte all'enorme numero di vittime abbattute attorno a lui da bombardamenti e genocidi? Non c'è da stupirsi se è dalle anime più sensibili che sorge il monito più feroce contro qualunque forma di violenza, perché proprio loro sono le più colpite dalla più piccola forma di intolleranza e di ingiustizia, in quanto più suscettibili a coglierla: il minimo segnale viene in loro ingigantito e, come un insetto sotto una lente d'ingrandimento, diventa il paradigma mostruoso di tutta l'ingiustizia del pianeta. L'Ottava è, nel suo contenuto espressivo, estremamente cupa, a tratti brutale. Questa brutalità, però, è parsa come attenuata e “teatralizzata” nella lettura di Valcuha, in questo allineandosi all'interpretazione data al Requiem di Takemitsu. Chi ha presente (e chi apprezza) l'aggressività con cui Kirill Kondrashin attaccava l'inizio del primo movimento dell'Ottava, non rimpiange certo la direzione di Valcuha, che ha offerto una visione meno sbalzata, meno contrastata. Banco di prova di tutto ciò è da sempre il moto incessante e vorticoso del terzo movimento: in partitura non v'è traccia di legatura di portamento, ma, del pari, nemmeno indicazioni di staccato: si dovrebbe concludere che non si debbano eseguire né staccate, né legate: una via di mezzo. La maggior parte delle direzioni invece estremizzano ora l'uno, ora l'altro modo di eseguirle. Valcuha, per esempio, si schiera dalla parte del legato, scelta da non rigettare, perché la lettura di Mravinskij, direttore molto vicino a Šostakovic e al quale l'autore stesso dedicò il lavoro (e con cui collaborò non poche volte), propende verso di essa. Si tratta in ogni caso di pareri e di gusti personali, e la qualità generale della performance, grazie ad un'orchestra di prim'ordine come la OSN , si situa ad un livello più che buono. Il dato puramente tecnico dell'esecuzione è stato in larga parte inappuntabile, fatte salve alcune diacronie delle trombe negli interventi finali nel primo e nell'ultimo movimento, un primo clarinetto un po' troppo insistito nei passaggi verso la fine del quarto, dei frullati dei flauti non sempre fittissimi (sempre nel quarto movimento) e alcune difficoltà degli ottoni nel terzo movimento, in quei veloci passaggi arpeggiati obiettivamente di esecuzione molto difficile, che riprendono il moto vorticoso degli archi. Plauso incondizionato, invece, ai percussionisti, impegnati qui in un gioco di agilità e di incastri davvero notevole, brillantemente eseguito.
Christian Speranza
17/3/2015
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