Angeli fornai
I concerti al tempo del Coronavirus, parafrasando Márquez, resteranno impressi, in chi ha avuto la fortuna di assistervi dal vivo, come esperienze surreali. È un periodo in cui, tra mascherine, termometri, distanziamenti, si prova a fingere che “andrà tutto bene”, che sia tutto normale, ben sapendo che non lo è. Si sopporta, si cerca di essere forti, di opporre resistenza al virus con tutte le precauzioni possibili: ma oltre a ciò, a livello emotivo si reagisce o con la violenza o con l'estraniamento, rifugiandosi nella dimensione altra del sogno, un bozzolo sicuro, benché artificiale, che funga da realtà sostitutiva, come la villa di Des Esseintes.
È questo lo spirito di una delle liriche collezionate da Achim von Arnim e Clemens Brentano nel Corno magico del fanciullo, la raccolta di poesie popolari tedesche pubblicata nel 1805-1808. La lirica, intitolata La vita celestiale, illustra un paradiso-banchetto dove San Pietro torna ad essere pescatore di pesci, San Luca e San Giovanni mandano a macellare il bue e l'agnello, dove anche l'austera Sant'Orsola ride, dove Santa Marta è la cuoca e dove gli angeli infornano il pane. Una visione naïve di una realtà superna che si cerca di ridimensionare a portata di gioie terrene, per contrastare, almeno in sogno, almeno col pensiero, le disgrazie della realtà. A fare da contraltare a La vita celestiale, troviamo infatti La vita terrena, in cui un bambino muore di fame prima del raccolto, addormentandosi tra le pietose bugie della mamma che lo esorta a resistere e pazientare ancora un po', finché…
Entrambe le liriche non sfuggirono all'attenzione di quell'assiduo lettore del Wunderhorn che fu Gustav Mahler. Nel 1892 musicò La vita celestiale e l'anno successivo La vita terrena. In un primo momento pensò di includerle nel vasto affresco della sua Terza Sinfonia, che proprio in quegli anni stava prendendo corpo. Poi cambiò idea: da un lato lasciò La vita terrena come Lied a se stante; dall'altro utilizzò La vita celestiale come finale della Quarta, scritta tra il 1899 e il 1900.
È significativo che venga presentata proprio questa sinfonia nel quarto «Concerto d'autunno» dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI (OSN); assieme alla Quarta , nell'appuntamento di giovedì 22 ottobre 2020 presso l'auditorium Arturo Toscanini di Torino viene eseguito anche il Concerto per pianoforte e orchestra n°3 in do minore Op.37 di Ludwig van Beethoven. Composto tra il 1800 e il 1803, esso è il primo dei suoi cinque concerti “ufficiali” per pianoforte e orchestra che mostri l'impronta inconfondibile del suo stile e della sua personalità (benché una firma illustre come quella di Giovanni Carli Ballola vi veda poco più di una sterile drammaticità di maniera: de gustibus…): non solo per la tonalità di do minore, “beethoveniana” per antonomasia – la stessa, per esempio, della Quinta Sinfonia e della Sonata “Patetica” – ; ma anche per il carattere delle idee: scolpita in poche note, efficaci sul duplice versante della melodia e del ritmo, quella che apre il primo movimento; elevate ad altezze ultraterrere quelle del Largo centrale; di sapore pre-schubertiano quella del refrain del rondò conclusivo.
A condurre l'OSN viene chiamato il maestro Fabio Luisi, che si avvale per i due brani di due soliste d'eccezione: Beatrice Rana per Beethoven ed Ekaterina Bakanova per Mahler.
La serata inizia con una meravigliosa esecuzione del Terzo Concerto. La giovane pianista, classe 1993, sorprende per il controllo delle sonorità del suo strumento, per l'ampiezza della sua tavolozza espressiva, ricchissima di colori, di sfumature, di contrasti chiaroscurali, che contribuiscono a sbozzare in maniera estremamente plastica la pur già comunicativa musica beethoveniana. Tra Beatrice Rana e l'OSN s'instaura fin dall'inizio un'intesa quasi magica, mediata dalla tempra di Luisi, un'intesa equilibratissima in cui viene dato il giusto rilievo alla parte solistica e in cui viene trasmessa una grande, grande drammaticità, quasi teatrale, un'impressione di brillantezza, di maestosità e al tempo stesso di eleganza. Il suono dell'OSN si carica di afflato, di pathos, senza però abbandonarsi a facili eccessi d'enfasi, eccezion fatta, ad esempio, poco prima dell'attacco della cadenza dell'Allegro con brio d'apertura (e anche al passaggio dal minore al maggiore verso la fine dell'Allegro conclusivo), con la strepitosa rullata di timpano che introduce il pianoforte, la quale entra con irruenza nel dialogo orchestrale e lo scuote, prorompendo nella frase musicale e suggellandola con vigore. La cadenza viene resa da Rana a imitazione dello stile improvvisativo, rapsodico, tipico di quando ancora le cadenze non venivano fissate per iscritto, ricorrendo a un uso sapiente di accelerati e ritenuti, a imitazione della grande introduzione della Fantasia corale Op.80 (effettivamente improvvisata la sera della prima e stesa in seguito).
Decisa e maschia la chiusa del primo, quanto delicata l'apertura del secondo movimento, affidata al pianoforte solo, dove si apprezza il lato intimista dell'interpretazione di Rana e la discreta pulsazione dell'orchestra raffrenata a dovere da Luisi. Ma non è che una breve parentesi: senza soluzione di continuità, il rapido attacco del rondò riporta senza mezzi termini con i piedi per terra. È facile qui cogliere l'ottimo lavoro fatto sull'alternanza tra momenti di irruenza e di leggerezza, man mano che la tensione di stempera, fino alla travolgente conclusione che induce il pubblico a un applauso convinto e prolungato. E questo, mi si permetta, allarga il cuore, dopo i timidi applausi dei concerti precedenti, forse anche grazie a un afflusso maggiore di persone (entro il limite dei duecento), o di persone più entusiaste.
Proprio in risposta a questo entusiasmo, Beatrice Rana omaggia la platea con un fuori programma, lo Studio n°1 in la bemolle maggiore Op.25 di Fryderyk Chopin, detto “l'arpa eolica”. Vi è un sottile collegamento, non so se voluto o meno, tra questo brano e la data in cui viene eseguito: la raccolta degli Studi Op.25 è dedicata da Chopin alla contessa Marie D'Agoult, all'epoca amante di Franz Liszt: e, guarda caso, il 22 ottobre, giorno del concerto, i lisztiani festeggiano il compleanno del loro beniamino…
Il grande consenso suscitato dal Terzo di Beethoven non trova una replica felice nell'esecuzione della Quarta di Mahler: un'esecuzione che dall'inizio alla fine appare fuori fuoco, soprattutto nello spirito. Proprio là dove le agogiche suggeriscono un'idea di quiete, come nel primo movimento (Riflessivo, non affrettato, molto comodo), ecco prendere avvio un'infilata di sonagliere che comunica affanno e che stenta a calmarsi all'ingresso degli archi, in quel ritenuto così insidioso e apparentemente facile da rendere (quale differenza con le imperfettibili letture del Mengelberg degli anni Quaranta o dell'Horenstein degli anni Settanta!); ed ecco avvicendarsi uno sviluppo concitato, che all'acme della tensione, in corrispondenza del colpo di tam-tam, sfocia nella confusione. Si salvano le battute conclusive, benché non sufficienti a compensare quelle prima. La direzione migliora col secondo movimento, forse anche grazie alla sua struttura meno complessa. Ben evidenti e pregevolmente eseguiti i soli di clarinetto, da parte di Luca Milani (benché tutta l'orchestra sia a un livello indiscutibile, quanto a prestazione strumentale). Si attesta su un buon livello anche il vero e proprio movimento lento della sinfonia, il terzo, Ruhevoll, il più esteso dei quattro: ben articolato, adeguata morbidezza degli archi, sebbene migliorabile, interventi di corni e timpani in evidenza, a sottolinearne l'importanza non solo timbrica, ma anche melodica. Peccato soltanto per la sezione centrale, condotta con eccessiva disinvoltura.
Quanto alla calibrazione dei piani sonori, sovente non sono sbalzati, cosa che appiattisce melodia e accompagnamento sullo stesso piano e impedisce di cogliere la raffinata strumentazione mahleriana. Nate dalla mente di un grande direttore d'orchestra, oltre che di un compositore audace e per l'epoca modernissimo, le sinfonie di Mahler necessitano di uno sguardo direttoriale diverso da quello che si dedica ad altre partiture. Gli autografi sono costellati di indicazioni del Mahler direttore, per non tradire le intenzioni del Mahler compositore.
Ed ecco Ekaterina Bakanova coronare la sinfonia. Abito nero a fiori bianchi (quasi si fosse accordata con Beatrice Rana, anch'ella in un nero elegantissimo), capelli d'un rosso preraffaellita e, surtout, una voce bella, calda, corposa, limpida, che corre per la sala, anche se a tratti sovrastata dall'orchestra. Come in molti altri casi, anche in questo il “ refrain dei sonagli” si abbandona a un isterismo ingiustificato, anche se non così estremo: una strappata che poco ha a che fare con l'indicazione mahleriana che recita Plötzlich frisch bewegt (Improvvisamente appena più mosso).
Anche la conclusione arriva di netto, con poca sfumatura, laddove il fascino di quest'ultima pagina consiste proprio nel suo svaporare verso l'alto, in quello smaterializzarsi del suono, del corno inglese «che pigola sempre più piano» nella sala e in quell'attimo di sospensione e di silenzio prima che parta l'applauso, mentre la nota rivola ai suoi cieli. Ma va bene così, in questo periodo, in cui niente si può dare più per certo: purché non venga estirpata dall'anima di quella platea forzatamente decimata la scintilla di voler godere ancora della musica, che non si smetta di aver fame di quel panis angelicus che gli angeli fornai, compositori ed esecutori, ammanniscono per noi.
Christian Speranza
10/11/2020
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