I vestiti nuovi di Schubert
Dopo l'interruzione di febbraio per lasciar spazio a Rai Nuova Musica, rassegna annuale di classica contemporanea che trova posto nel mese di febbraio, l'OSN torna a deliziare le orecchie dei suoi fedelissimi offrendo, al quindicesimo appuntamento della stagione (6 e 7 marzo 2014) un programma ricercato e gustoso. Si parte con un classico di Cajkovskij, la Serenata per archi in do maggiore Op. 48 (1880). Fin dalle prime battute si coglie, nella direzione di Pietari Inkinen, un che di magniloquente, tendente al pletorico. L'introduzione del primo movimento, Andante ma non troppo, è condotta come una pomposa Ouverture barocca, cosa che forse al compositore non sarebbe dispiaciuta; d'altro canto, siamo dell'opinione che Cajkovskij sia effettivamente da dirigere con una punta di pletoricità, dato l'afflato ultraromantico di buona parte della sua musica (si pensi alla Francesca da Rimini Op. 32). Segue il vero e proprio primo movimento, Allegro moderato, reso con agitazione, con irrequietezza e slancio, che ben potrebbe accordarsi col pathos della Sinfonia dei Vespri verdiani. Si quieta alla fine, dove riprende il tempo più largo dell'introduzione e conduce a termine con eleganza. Meno elegante è invece il secondo movimento (un valzer di pura cantabilità che ricorda quello della più tarda Quinta Sinfonia, sempre di Cajkovskij), dove l'orchestra pare leggermente appesantita da un eccessivo languore. Migliora nel terzo movimento, l'Elegia, un brano predittivo, in qualcosa di inafferrabile tra melodia e orchestrazione, dell' Allegro con grazia della Patetica, ma in tono più dimesso, più pacato: e Inkinen sembra interpretare in questo senso il carattere elegiaco del brano, che fa venir voglia di chiudere gli occhi e abbandonarsi al dolce tono cullante delle note. Nel quarto movimento, infine, un motivo ciclico, desunto dal primo, va a formare, con un tema russo, un dittico che ci ricorda che, nonostante Cajkovskij, per l'organico impiegato (i soli archi) e il titolo di “serenata”, abbia voluto esplicitamente richiamarsi alla tradizione galante del Settecento, nondimeno ribadisce patriotticamente le sue radici, l'appartenenza alla sua terra, e Inkinen conclude con un notevole slancio di vita, che fa onore alle intenzioni del compositore.
Nell'intento, sempre pregevole, di abbinare brani noti ad altri di non facile reperibilità, la direzione artistica dell'OSN ha voluto qui presentare, in prima esecuzione RAI a Torino, la versione orchestrale di tre Lieder di Schubert, a firma del compositore amburghese Detlev Glanert. A tenerli a battesimo, il tenore londinese Ian Bostridge, laureato honoris causa dal Corpus Christi College di Oxford, dall'Università di St Andrews e dal St John's College di Oxford, specialista del repertorio vocale da camera, e schubertiano in particolare, avvicinatosi al genere in età adolescenziale dopo essere stato affascinato dalle registrazioni di Fischer-Dieskau.
La liederistica schubertiana, si sa, spazia praticamente in tutti i generi di poesia, e la spontaneità con cui Schubert reperiva in sé il canto continua ancor oggi ad affascinare; tuttavia, non è fuori luogo pensare che certi Lieder (o forse la maggior parte: chissà?) fossero stati concepiti con un accompagnamento più complesso del solo pianoforte. Anche limitandosi ad una rapida scorsa alla parte pianistica, si nota come la tastiera venga usata da Schubert non solamente come mero sostegno armonico-melodico per il canto, ma anche con funzione dialogante con la voce (è superfluo ricordare che alcune composizioni vocali di un altro grande liederista, Gustav Mahler, furono concepite fin da subito per orchestra e schizzate al pianoforte solo in fase preparatoria): non potendo disporre di altri strumenti, però, e pensando l'esecuzione nell'atmosfera intima e familiare delle “schubertiadi”, era giocoforza limitarsi al pianoforte. Ma chi ci dice che, nella sua mente, quei suoni non si tingessero, anche solo per un momento, dei colori della tavolozza orchestrale? Con abile intuito timbrico, Detlev Glanert, classe 1960, ha deciso nel 2012 di dare nuova veste sinfonica a tre Lieder schubertiani: Viola, D 786 (1823, testo di Franz Schober), Waldesnacht, D 708 (1820, testo di Friedrich Schlegel) e Das Lied im Grünen, D 917 (1827, testo di Johann Anton Friedrich Reil): parafrasando Andersen, verrebbe da dire i vestiti nuovi di Schubert. Il risultato è qualcosa di assolutamente gradevole e non certo improbabile da un punto di vista filologico: oltre agli archi, vengono chiesti solamente i legni consueti “a due” (flauti, oboi, clarinetti, fagotti) e due corni: in sostanza, un'orchestra media primo-ottocentesca di impostazione haydniana, cui avrebbe potuto pensare Schubert stesso.
Bostridge, per la prima volta ospite dell'OSN, è tenore leggero, di stampo belcantistico, votato all'agilità (prova ne sia il suo abituale reperorio, i grandi Oratori di Haydn, Händel e Bach, e i ruoli tenorili di Britten); tuttavia, l'orchestra rivaleggia con lui in volume sonoro e spesse volte vince, giungendo a coprirlo, anche se non del tutto. Unica pecca, questa, unita ad una certa inclinazione al grido laddove la voce tende a sforzare, cosa che succede comunque di rado. Nel complesso, una scoperta interessante delle frontiere contemporanee della classica, che talvolta rispolverano, come la moda vintage, la bellezza di invenzioni con più di un secolo di vita, eppure ancora oggi fresche e vive.
Conclude il concerto la Seconda Sinfonia di Jean Sibelius, del 1901/2. Anche qui, come all'inizio della Serenata di Cajkovskij, Inkinen imprime all'esecuzione un taglio poderoso, privilegiando la massa orchestrale piena, sonora, sebbene controllata e non lasciata esplodere senza regola. Ci riferiamo in particolare al secondo movimento, Tempo andante, ma rubato, forse il meglio diretto della serata, in cui ben emerge l'impressione di voler inscenare una lotta, una reciproca sopraffazione delle parti; all'apertura lirica e sognante, pur nel segno di una costante robustezza di fondo, dell'episodio centrale del terzo movimento (Lento e soave), in cui si segnalano i begli assoli di violoncello (Pierpaolo Toso) e oboe (Carlo Romano); e al trasporto energico del quarto, che ci ha richiamato la pulsione drammatica di un certo Rachmaninov orchestrale o del Concerto di Varsavia di Addinsell.
Christian Speranza
19/3/2014
Le foto del servizio sono di RAI Musica.
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