Due Quinte a confronto
Per il concerto inaugurale della stagione (giovedì 20 ottobre 2016, con replica venerdì 21, di cui si riferisce), l'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI (OSN), sotto la guida del suo nuovo direttore principale, il newyorkese James Conlon, propone un interessante confronto fra due Quinte Sinfonie, quella di Schubert e quella di Mahler, profondamente diverse ma accomunate dalla culla che le vide nascere: Vienna.
La Vienna del 1816, l'anno della Quarta e della Quinta di Schubert, è la città di Beethoven, all'ombra del quale langue l'ultima ventata di Classicismo propriamente detto (morto Haydn, nel 1809, può dirsi conclusa un'epoca) e iniziano ad affacciarsi i primi protagonisti della grande generazione romantica: Mendelssohn ha sette anni, Schumann e Chopin sei, Liszt appena cinque; e poi c'è Schubert, che, a diciannove anni, non sa se dichiararsi più ammiratore di Beethoven (la Quarta , in do minore, “Tragica”, è debitrice, già a partire dalla tonalità, al Coriolano e alla Quinta beethoveniana, apparsi nel 1808) o di Mozart, il suo grande ispiratore del primo periodo. Tutta intrisa di spirito mozartiano è infatti la Quinta Sinfonia in si bemolle maggiore D 485 (solo sei mesi dopo la Quarta ), l'ultimo sguardo al passato, prima di lanciarsi, con la futura Sesta, verso un altro modello: quello di Rossini e dell'opera italiana, fusi ancora con stilemi haydniani e beethoveniani. Uno Schubert classicista, insomma, che nello Scherzo si avvicina al Mozart della Sinfonia KV 550, quasi ricalcandone orchestrazione e temi.
Ben diversa la Quinta mahleriana, che saluta il nuovo secolo (composta nelle estati del 1901-02) e che accompagnerà l'autore fino al 1911, anno della sua morte, in una serie di piccole e continue correzioni. Con questa grandiosa composizione, Mahler si stacca dal mondo liederistico del Wunderhorn, centro attorno a cui era gravitata gran parte della sua produzione precedente (Wunderhornlieder, Seconda, Terza e Quarta Sinfonia), e torna alla sinfonia strumentale pura, come era stata la Prima – senza programmi esplicativi, questa volta: nessun “Titano” che scopre il senso della vita, nessun eroe che “risorge”. Un senso sotteso all'accostamento dei cinque movimenti di cui consta c'è, ma ognuno è libero di trovare quello personalmente più congeniale. La Quinta viene divisa dal suo autore in tre parti in una struttura (1+1)-(1)-(1+1): primo e secondo movimento costituiscono la prima parte, una Marcia funebre e un Tempestosamente mosso, legati da una serie di rimandi tematici ed espressivi, mentre quarto e quinto movimento, il celeberrimo Adagietto e il Rondò-Finale, formano assieme la terza parte. A fare da ponte centrale, lo Scherzo, il tempo più lungo e articolato della sinfonia, un «tempo maledetto», secondo Mahler, per le difficoltà di significato che pone, e che da solo costituisce la seconda parte della sinfonia. (Anche nella Settima vi sarà un'architettura in cinque tempi, ma si tratterà di uno schema (1)-(1+1+1)-(1) con altre finalità).
James Conlon avrà modo di farsi conoscere e apprezzare lungo questa stagione, che lo vedrà impegnato tante volte sul podio come direttore principale (succedendo a Juraj Valcuha), alternandosi, com'è consuetudine, ad altri direttori ospiti. Intanto, si è potuta constatare una personalità volitiva, trasmessa alla Quinta di Schubert a partire dai contrasti piano - forte particolarmente sbalzati dell'Allegro d'apertura e un grande rilievo dato agli sforzati. I temi un po' ingenui del successivo Andante con moto sono oscurati qua e là da quelle ombre che fanno parte delle inquietudini preromantiche di cui è pieno Mozart, e trattate con empito, per l'appunto, preromantico. Anche il successivo Minuetto (Allegro molto), che si allinea a tutti quei Minuetti di transizione tra la musica galante e il Romanticismo e che di fatto sono già degli Scherzi, è trattato in modo concitato, in un certo senso stürmisch, a giudicare dal piglio aggressivo degli attacchi in forte. Più amabile il Trio centrale, la cui conduzione si ammorbidisce assieme alla musica, perfetto contrasto per la ripresa da capo del Minuetto. E sulla stessa condotta si mantiene il finale, un Allegro vivace energico, esaltato soprattutto nella drammaticità dei passaggi in minore. Complessivamente, questa Quinta fa l'effetto di un Settecento visto con gli occhi di chi ha già nel cuore le trepidazioni dell'Ottocento romantico e che gioca, forse per l'ultima volta, con gli stilemi preconfezionati della musica che l'ha preceduto.
Un appunto sul numero di archi chiesti per questa esecuzione: dodici violini primi e quattro contrabbassi: un numero notevole, per una sinfonia senza trombe e timpani e che prevede fiati a due e un solo flauto – un organico modesto, a fronte di un numero sproporzionato di archi, quasi il doppio rispetto ad una formazione classica normale. Ne consegue un suono non regolato, “gonfiato” nella sezione degli archi e trattenuto in quella dei fiati, col risultato che un brano che fa il calco di una sinfonia-tipo settecentesca acquista il turgore di un'esecuzione vicina al temperamento romantico. Cosa positiva o negativa? Dipende dai gusti: filologicamente poco corretta, potrebbe essere un'esecuzione che tiene conto dell'animo post-classicista e già romantico di Schubert, il quale, non brillando forse per originalità nel genere della sinfonia (con le debite eccezioni delle ultime “Incompiuta” e “Grande”), esprime meglio se stesso nel genere della piccola forma per pianoforte (Improvvisi, Klavierstücke, ecc.) o nei Lieder (caratteristica, questa, tipica dei Romantici, essere più espressivi nelle piccole forme).
L'orchestra si presenta malleabile e pronta ad eseguire le indicazioni di Conlon; si ritrova la ben nota coesione degli archi e la pulizia nell'evidenziare la linea melodica, affidata a gruppi ben specifici di strumenti; sola eccezione il flauto, che, nei primi due movimenti, pare non riuscire a inquadrare perfettamente il suo ruolo nell'interno dei passaggi solisti, evidenziandosi forse più del dovuto.
Diverso è ciò che si è tratto dalla Quinta mahleriana, spesso bistrattata, difficile da dirigere e da eseguire al meglio. L'insieme è parso solido, un'esecuzione robusta, comunicativa, anche se non eccezionale, a motivo delle frequenti imperfezioni, sia di direzione, sia di performance orchestrale; e l'impressione che se ne ricava dipende da quanto potente si vuole l'ingrandimento su queste imperfezioni (l'intento non è denigratorio, si badi, ma analitico), a cominciare dalle terzine d'apertura della tromba solista, scivolate via troppo velocemente, con note troppo ravvicinate, non sgranate come si vorrebbe. I piani sonori della sezione centrale del primo movimento (dalla terza perorazione della tromba in avanti) sono a volte confusi, la linea melodica c'è, ma è come soffocata dal resto dell'orchestra (concesso che la massiccia orchestrazione rende difficile lo stacco netto tra “melodia” e “accompagnamento”). Nel secondo movimento, il poco portamento nell'espressività di alcuni passaggi compensano la buona riuscita del corale (la luminosa apparizione di un tema agli ottoni quasi verso al fine del brano, che tornerà nel Rondò-Finale). Nello Scherzo, il corno obbligato non riesce a sottrarsi a qualche stecca, e gli archi, al momento di eseguire il passaggio in pizzicato, assomigliano quasi a dei chitarrini, per la tanta (troppa) energia che mettono (e dire che la partitura indica dinamiche che vanno dal piano al mezzoforte, al massimo accentato). Analogo discorso per gli interventi del glockenspiel, sempre troppo in primo piano. Anche qui come nei movimenti precedenti si alternano passaggi più chiaramente delineati ad altri più confusionari, e se non si ha un'idea più che precisa della scrittura orchestrale mahleriana, si rischierebbe di concludere che Mahler, nell'ansia elefantiaca di aggiungere strumenti a strumenti, non sapesse comporre. L'Adagietto (con la I, ché altrimenti Adagetto è un piccolo e grazioso brano per orchestra del Puccini non operistico strumentale!) è stato vittima di un'interpretazione in cui molti direttori indulgono: l'alterazione arbitraria della lunghezza di alcune note a scapito di altre. Per esemplificare, eseguire le tre crome in apertura di movimento (benché annotate molto ritenute) più lentamente delle tre semiminime che riprendono lo stesso tema poco dopo, va oltre la questione di natura interpretativa, perché si avvertiva che la velocizzazione delle tre semiminime non era giustificata dal molto ritenuto delle crome, ma da un certo senso di impazienza, da una volontà di non soffermarsi su quel passaggio, perché già fatto ascoltare prima (ma se l'intento fosse stato questo, avremmo trovato le il tema scritto in crome dopo, e non prima). La lettura, un po' squadrata, senza troppa indulgenza nei confronti di quello struggimento decadente che nell'Adagietto raggiunge vertici insuperabili, permette nondimeno agli archi di esibire una delicatezza apprezzabile.
Il Rondò-Finale viene attaccato senza pause, come prescritto in partitura. Da segnalare soprattutto nuove pecche del corno solista, in apertura e non solo, e la ripresa del corale degli ottoni (dal secondo movimento) più maestosa di prima, come indice del vero dispiegamento della potenza rigeneratrice di questo passaggio: se là, nei turbini del Tempestosamente mosso, costituiva appena un accenno della futura vittoria, qui, nel Finale, suona come la vittoria in atto, giunta alla fine di un percorso che passato attraverso lo Scherzo, l'Adagietto e buona parte del Rondò.
Nel complesso una Quinta dignitosa, nonostante quanto qui riportato, analizzata con puntigliosità ma solo per rigore e rispetto dell'autore, dei professori impegnati nell'esecuzione e a servizio di quella bellezza artistica che passa prima di tutto sotto la censura della propria sensibilità personale.
Christian Speranza
31/10/2016
Le foto del servizio sono di Piùluce.
|