L' Ottava di Bruckner secondo Mehta
«[…] il tentativo di fusione di una asciutta erudizione contrappuntistica con una squilibrata esaltazione sonora. […] In ciascuna delle quattro parti […] c'è qualche spunto interessante, qualche lampo geniale […], se non ci fosse tutto il resto!»«Questa sinfonia è la creazione di un gigante e supera […] tutte le altre opere del maestro. […] Fu una completa vittoria della luce sulle tenebre. […] In breve, un trionfo che un imperatore romano non poteva augurarsi più bello».
Chi aveva ragione? Eduard Hanslick, che il 18 dicembre 1892, sconcertato, lasciava il Großer Musikvereinsaal di Vienna, mentre Hans Richter era arrivato all'Adagio dell'Ottava Sinfonia di Bruckner, o Hugo Wolf? Di quella prima esecuzione si hanno pareri contrastanti.
Effettivamente, per un conservatore filobrahmsiano come Hanslick (e per Brahms stesso, presente in sala a quella prima esecuzione, che se ne andò imbronciato) dominare le poco più di duemila battute dell'Ottava era un'impresa ardua. «La caratteristica essenziale dell'Ottava consiste proprio in quella dilatazione e quindi nello smantellamento di una concezione sinfonica esperita nelle opere precedenti e soprattutto nell'equilibrata Settima Sinfonia. Da cui l'Ottava non si allontana quanto a impostazione formale: ma ne esaspera anzitutto le suddivisioni dei tre temi, che ora prendono a configurarsi in gruppi tematici costituiti ciascuno da vari elementi» (Sergio Martenotti). Anche Alessandro Solbiati, parlando dell'Ottava per Radio Tre, cita la Settima. La Settima fu il primo vero successo di Bruckner – naturale quindi che fosse a Hermann Levi, che la tenne a battesimo, che Bruckner spedì la prima versione dell' Ottava, scritta fra il 1884 e il 1887 –: sarebbe stato facile scrivere “un'altra Settima”, ricalcando gli stilemi che ne avevano determinato l'accoglienza favorevole di pubblico e critica: chiarezza di struttura, melos a profusione, orecchiabilità e cantabilità dei temi. E invece Bruckner, volendo andare oltre la Settima, scrive un'Ottava che è l'opposto: la struttura formale, come si diceva, è esasperata, e per quanto si possa ricondurre, nel primo e nell'ultimo movimento, a una forma-sonata tritematica, il materiale impiegato è ampio e variegato, lo sviluppo denso di contrappunti, la riesposizione, nel primo movimento, mascherata come meglio non si potrebbe, come a voler confondere deliberatamente l'ascoltatore; per non parlare dell'aspetto melodico: soppresso quasi dappertutto, soppiantato da cellule motiviche, più che da motivi, da ritmi ostinati, da cenni di marce, relegato solo al Trio dello Scherzo, ma dirompente nella quasi mezz'ora dell'Adagio, la cui pregnanza ne fa, come già per la Settima, il fulcro emotivo della sinfonia. Sinfonia sbilanciata, quindi, squilibrata per questo Adagio preponderante, per disomogeneità di spunti ispirativi – gli appelli in fortissimo delle trombe, al termine del primo movimento, sarebbero, nelle parole di Bruckner, la Todesverkündigung, l'annuncio della morte, termine che rimanda direttamente alla Valchiria wagneriana; nello Scherzo il riferimento è al “Deutscher Michel”, personaggio del folklore germanico bonario e testardo; il sospiroso tema dell'Adagio sarebbe stato trovato, a detta di Bruckner, «negli occhi di una fanciulla»; la fanfara d'apertura del Finale dipingerebbe l'incontro tra lo Zar e il Kaiser a Olmütz –, la cui validità nell'informare i singoli movimenti è ancor meno pregnante di quella delle pur vaghe didascalie della Quarta, la Romantische. Naturale quindi che Levi abbia respinto la partitura, consigliando a Bruckner una revisione. La revisione lo impegnò fino al 1890, e i cambiamenti furono diversi: dal ripiegarsi del primo movimento in ppp, anziché della conclusione in un luminoso do maggiore, all'ampliamento della strumentazione (legni “a tre” e raddoppio dei corni da quattro a otto per tutti e quattro i movimenti), a cambi del percorso armonico dell'Adagio, il cui cacumen passa da do maggiore a mi bemolle maggiore, a tagli e modifiche del Finale, la pagina più ripensata («per carità, raccorci il Finale!» scriveva Bruckner a Weingartner) che contiene però, verso la fine, la sovrapposizione di spunti tematici derivanti dai primi tre movimenti
Così come la conosciamo oggi, nell'edizione “Nowak 2”, l'Ottava dovrebbe essere quella pensata da Bruckner dopo la revisione (la storia delle edizioni meriterebbe discorso a parte, che si risparmia al lettore) ed è quella più frequentemente eseguita oggigiorno. Ed è anche quella diretta da Zubin Mehta nel concerto di giovedì 13 ottobre 2022 al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, alla testa dell'Orchestra della Casa. Direttore onorario a vita del Maggio, con la sala grande a lui dedicata, Mehta offre una lettura statuaria, monolitica della sinfonia, laddove statuarietà non si traduce con immobilità, ma con proiezione quasi mitologizzata della stessa, oggettiva, più che soggettiva: più che un'interpretazione, un'esecuzione: come deve essere nel caso di queste opere, lasciando che sia la musica stessa a esprimersi senza voler aggiungere distorsioni personalizzanti, che si configurerebbero come superflue. E questa, si badi, è già in se stessa un'interpretazione, dato che, per il principio base della semiotica, “non si può non comunicare”. E, nonostante sia stata variamente appellata con soprannomi quali “la tragica” o “l'apocalittica” (soprattutto in relazione al Todesverkündigung di cui sopra), dalla lettura di Mehta traspira più un senso di grandiosità, di epicità, che di dolore o di tragedia. Considerazione scontata, forse, dato che nelle sinfonie bruckneriane è sempre tutto grande, tutto epico. E invece no, perché proprio in tutta questa grandezza si può perdere il senso di grandiosità, affastellando piani sonori e rendendo l'insieme una farragine di suono. Non che Bruckner renda le cose facili: nella sola Ottava richiede qualcosa come diciannove ottoni (è la sinfonia più massiccia prima dell'avvento di Mahler e Schönberg), e comprensibilmente il primo corno è stato assistito, nell'esecuzione di cui si riferisce, da un flicorno aggiuntivo (curiosità chiesta a fine concerto a un trombettista). Ma qui, tutto è chiaro, comprensibile. Le dinamiche sono ben controllate, i piani sonori sovrapposti ma non affastellati, di modo che lo spesso tessuto orchestrale diventa trasparente, quasi scomponibile all'orecchio nei suoi costituenti. I tempi sono comodi, alla Celibidache. E tale chiarezza di ascolto è permessa anche da questo. Certo, si sacrifica un po' il senso di tensione, di unitarietà, ma, conoscendo un minimo la struttura della sinfonia, è facile seguirla. Molto apprezzati sono stati i “respiri”, le impercettibili pause tra le sezioni dei movimenti: articolazione espressiva che sottolinea come alla base vi sia uno studio approfondito della forma.
L'orchestra, smagliante quanto a colori, compattezza e resa complessiva è stata generosamente applaudita, e anche di più il maestro Mehta, che con difficoltà ha raggiunto il podio e ne è disceso (dirigendo da seduto). Un declino fisico (ma certo non mentale: ché tenere a bada l'Ottava non è da poco, considerando che Mehta passa da opere a sinfonie con versatilità e ha in programma altri giganti sinfonici da dirigere: la Terza di Mahler a breve) che ha intenerito lo scrivente, e che ha fatto paragonare la sua figura a quella di Bruckner stesso, che negli anni dell' Ottava coglieva i veri successi, pur andandosi spegnendo. Finale che ha reso malinconica la chiusa della serata.
Christian Speranza
16/10/2022
|