Mahler senza ritorno. E senza ritornello
Sulla scorta del modello beethoveniano, le Sinfonie di Mahler tracciano piuttosto frequentemente un percorso ascensionale: al più classico degli esempi, quello della Seconda, si accoda quello della Terza, della Quinta e della Settima, che terminano con movimenti affermativi e luminosi, in antitesi con incipit presaghi di morte. Ma non nella Sesta. La Sesta è un viaggio senza ritorno, un inabissarsi nella tragedia, con illusorie parentesi di esuberante trionfalismo (al termine dell'Allegro energico, ma non troppo) e di serenità, per quanto venata di malinconia (nell'Andante moderato), passando per quella sorta di danza allucinata che è lo Scherzo. Il tutto converge poi, nel vastissimo Finale, un elettrocardiogramma di un'avventura destinata a finire male, tra brevi slarghi cantabili, ritmi serrati di marcia, cadute rovinose (i colpi di martello), rialzi, sussulti, fino a che l'ultima apparizione del “motto” dei sei colpi di timpano già presentati all'inizio della Sinfonia tronca il movimento, che si spegne in piano su un pizzicato degli archi e un tonfo di grancassa.
La “Tragica”, come è stata soprannominata, viene eseguita domenica 5 novembre 2023 nell'ambito del Festival Mahler, indetto per il trentennale dell'Orchestra Sinfonica di Milano e il venticinquesimo anniversario del Coro Sinfonico. L'ottica di collaborazione multipla del Festival vede per questa esecuzione l'Orchestra della Fondazione Arena di Verona impegnata sul palco dell'Auditorium di Milano (Fondazione Cariplo) con la direzione di Marco Angius. Una Sesta, diciamolo subito, non memorabile, ma a suo modo interessante per qualche spunto di riflessione che ha offerto.
L'Allegro energico, ma non troppo che apre la Sinfonia è condotto con molto equilibrio. Angius non si lascia trascinare dall'empito della partitura, la governa con polso fin troppo saldo, e anche gli scoppi orchestrali restano contenuti in un'espressione di sobrietà. Una conduzione che enfatizza il ma non troppo dell'agogica, prediligendolo a scapito di una certa selvaggità, di una certa aggressività del tono generale. Ne beneficia quello che David Matthews chiama «l'interludio visionario del primo movimento», dove i campanacci da mucca fuori scena (Herdenglocken) e la celesta conferiscono al suono un colore diafano, ultraterreno, trattato con dolcezza e chiarezza di intenti. Dolcezza, o meglio flessuosità, morbidezza, che investe anche la ripartenza della corsa dello sviluppo (nº 25 in partitura), quando «l'interludio visionario» svanisce e i violini primi, in un perentorio si maggiore, riprendono a elaborare il primo tema, ripartenza richiesta da Mahler Sehr energisch! (col punto esclamativo!) e qui invece trattata come riferito. Nota di merito sono però i frequenti rimarchi, soprattutto nell'esposizione, di interventi strumentali sovente messi in ombra – tromboni al nº2, corni e trombe al nº5, ecc. – che danno un'idea, seppur parziale, di quanto sia ricca la strumentazione mahleriana in questa sinfonia e in quale ginepraio si addentri una direzione che voglia risultare chiara in tutte le sezioni. In ogni caso, mettendo in luce questo o quel particolare, si cade in piedi, perché si evidenzia uno dei molteplici aspetti della fitta scrittura mahleriana. Resta tuttavia da migliorare la concertazione di alcuni passaggi. I suddetti Herdenglocken, per esempio, sono divisi in due set, uno in orchestra e uno in Entfernung aufgestellt, ovvero posto a distanza. Nell'«interludio visionario» viene impiegato quest'ultimo, che sembra però posto appena fuori palco, ad una distanza ancora troppo ridotta per evocare spazi montani, la lontananza dell'ultimo suono percepito prima di ascendere in vetta. Un particolare non da poco, perché è proprio il tenue – mi si passi il termine – “mormorio” sommesso la chiave di tutto il fascinoso passaggio. All'opposto, la presenza insistita delle sonorità più brunite dell'orchestra, e mi riferisco alla tuba e al terzo trombone, e alle percussioni, canalizzano l'attenzione verso note più di sostegno armonico che di discorso melodico, in ciò squilibrando parzialmente una tenuta delle parti per certi versi, come detto, originale e in buona parte convincente. Vera coltellata all'organizzazione formale è stata però l'omissione della ripetizione della sezione espositiva. Anche qua, può sembrare cosa da poco: in fondo, con le Sinfonie di Mozart e Beethoven, anche grandi direttori si sono permessi di tagliare le ripetizioni delle esposizioni (per non parlare del campo operistico, dove le omissioni delle cabalette ripetute non si contano nemmeno), e in epoca tardoromantica sinfonisti come Brahms, Bruckner e Cajkovskij ne hanno previsto espressamente l'abolizione (Brahms le mantiene nella Seconda e nella Terza, ma è il più classico dei tardoromantici). Se Mahler, però, in tutta la sua produzione sinfonica, sceglie questo Allegro per imbrigliare per l'unica volta la sua fantasia compositiva nelle maglie della forma sonata pienamente rispettata, almeno che si esegua secondo le sue prescrizioni, ritornello incluso. Perché qui non si tratta più di interpretazioni più o meno condivisibili, di un forte o di un piano: si tratta di ignorare deliberatamente un segno scritto.
A questo Allegro Angius fa seguire lo Scherzo, adottando quindi l'ordine Scherzo-Andante dei movimenti centrali, vexata quæstio che risale all'inversione dei due messa in pratica da Mahler stesso che, con decisione presa all'ultimo, il giorno della prima assoluta, 27 maggio 1906 a Essen, diresse la Sesta con l'ordine Andante-Scherzo. Eppure, quando finì di comporla, nell'estate del 1904, e quando la diede alle stampe per i tipi di Kahnt di Lipsia nel 1905, l'ordine era quello proposto da Angius (ed eseguito con più frequenza ancora oggi: di tutte le Seste che ho ascoltato, pur se non moltissime, nessuna ha mai adottato l'ordine Andante-Scherzo). Sul perché abbia voluto invertirli, non si sa. Ma, personalmente, le ragioni per eseguire prima lo Scherzo e poi l'Andante sono più convincenti di quelle contrarie. Il fatto di eseguire lo Scherzo senza soluzione di continuità, come fa qui Angius, sottolinea la parentela dei due movimenti e traccia un parallelo coi primi due della Quinta, anch'essi imparentati per via di materiale tematico in comune. L'indicazione Wuchtig, cioè Massiccio, o Pesante, viene rispettata piuttosto bene; peccato per i due Trii, da eseguire invece con leggerezza, e che Mahler indica con Grazioso e con lo strano aggettivo di Altväterisch, traducibile con “nello stile dei vecchi padri”, cioè secondo lo stile di un minuetto, graziosamente settecentesco, rococò, e che vengono invece eseguiti invece un po' troppo rudemente.
Meglio il terzo movimento, Andante moderato, dove la flessuosità e la morbidezza che nell'Allegro erano un difetto, qui diventano un pregio. Fino a un certo punto, però: ché Angius, fedele a quel tipo di direzione piuttosto controllata, non dà adito a strazianti oasi decadenti di melodia: le contiene, anzi, e la musica canta quel tanto che basta a cantare da sé, non viene “allargata” nelle sezioni più liriche a farla lacrimevole. D'altro canto Mahler non è un compositore decadente, checché Mann e Aschenbach abbiano fatto per farlo sembrare tale.
Il Finale mostra gli stessi problemi di concertazione dell'Allegro, con percussioni in primo piano (e per fortuna che il secondo timpanista, pur previsto in partitura, non è stato reclutato), anche se stavolta gli ottoni risultano più amalgamati. Resta tuttavia poco spiccata la propensione a evidenziare i differenti stati d'animo che il movimento attraversa, la concitazione dei momenti più inquieti fatica ad emergere, le quartine di semicrome degli archi non danno l'effetto vorticoso che dovrebbero. Adeguatamente drammatiche le martellate, che son due, secondo l'edizione critica che espunge il terzo, peraltro espunto da Mahler stesso in fase di composizione.
L'Orchestra si dimostra valida e all'altezza della situazione, in grado di farsi plastico strumento nelle mani di Angius. Qualche imprecisione nella sezione dei corni e nel registro acuto della prima tromba, chiamata nel primo e nell'ultimo movimento ad ardue impennate e a salti improvvisi, non compromette in maniera sostanziale una prova di sicuro valore artistico, che il pubblico di un auditorium gremito applaude lungamente, arrivando all'applauso ritmato ma col buon gusto, prima, di lasciar svanire nell'aria quell'alone di pessimismo, quel «mar sì crudele» che ogni “Tragica”, riuscita o meno, «lascia dietro sé», facendo sì che il silenzio lo riaccolga fino alla prossima esecuzione. Chissà se avrà applaudito anche Quirino Principe, seduto nella fila davanti allo scrivente?
Christian Speranza
16/11/2023
Le foto del servizio sono di Angelica Concari.