RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Musica politicizzata

È toccato all'uzbeko Aziz Shokhakimov dirigere l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) nel secondo concerto della stagione, giovedì 3 novembre 2022 (di cui si riferisce, in replica venerdì 4). Il talentuoso attualmente trentaquattrenne (esordiente già a tredici anni con la National Symphony Orchestra of Uzbekistan!) ha guidato l'OSN lungo la Sinfonia n.7 in do maggiore Op.60 (Leningrado) di Dmitrij Šostakovic, riportandone un'esecuzione all'altezza della sua fama.

Impegnative, le pagine della Settima. E impegnate. Perché se c'è un brano che deve il suo successo non solo al suo valore artistico, ma anche alle circostanze storico-politiche, è proprio questo. Anno 1941. Il 22 giugno Hitler ordina di invadere l'Unione Sovietica. Ma il Blitzkrieg incontra alle porte di Leningrado (oggi San Pietroburgo) una strenua resistenza: l'assalto si trasforma in assedio, protraendosi fino all'inizio del 1944. Utile strumento di propaganda fu il fatto che Šostakovic avesse iniziato, proprio a Leningrado e proprio durante l'assedio (poco prima, in realtà, il 15 luglio), la composizione di un nuovo brano. «[…] la vita nella nostra città è normale. Siamo tutti ai nostri posti di combattimento»: così dichiarava alla radio il 16 settembre 1941. Come se nulla stesse accadendo; come se i bombardamenti non turbassero la scansione regolare della vita cittadina. Al punto che un compositore poteva mettersi al pianoforte e comporre. I primi tre movimenti vengono effettivamente scritti nella città assediata; in ottobre un treno lo porta al sicuro a Kujbyšev (oggi Samara), e lì, il 27 dicembre, termina il quarto movimento. Sempre a Kujbyšev, il 5 marzo 1942, se ne ha la première . Attraverso un microfilm, la partitura raggiunge gli Stati Uniti, dove la dirige Toscanini il 19 luglio. Ma l'esecuzione davvero storica è quella del 9 agosto, quando viene trasmessa dagli altoparlanti niente meno che da Leningrado stessa, assediata ma non vinta, che ha ancora la forza di organizzare un concerto e farlo sentire agli assedianti. A dirigerla è Karl Eliasberg (su questo si legga il godibile romanzo di Sarah Quigley Sinfonia Leningrado, Neri Pozza Editore), che raduna un'orchestra di reduci dal fronte, denutriti e macilenti, eppure in grado di suonare per un'ora e dieci in quel “party sotto le bombe” (e Canetti mi scuserà per la citazione). L‘assedio andrà avanti, ma intanto il mito si era diffuso, la forza e la resistenza del popolo russo erano precedute dall'eco delle sue imprese, ottimo ingrediente per temere un nemico prima ancora di affrontarlo.

Sul palco dell'auditorium Arturo Toscanini di Torino, Shokhakimov offre una lettura dai tempi tradizionali, coadiuvato da un'orchestra di cui si ammira sempre più la poliedricità e la capacità di adattarsi a repertori sempre diversi (in tre settimane: sinfonismo mahleriano, dodecafonia, e ora sinfonismo russo novecentesco), mantenendo uno standard qualitativo molto alto. Seguita dalla partitura, come ha fatto chi scrive, la sinfonia appare insidiosa, come altra musica del Nostro, ma ricca di particolari e sottotemi. Il lavoro sull'evidenziazione dei piani sonori, nel mettere in luce la parte melodica a scapito del contorno, è notevole, specialmente nel primo movimento, sezione centrale, ove viene ripetuto per dodici volte un tema che, come nel Boléro di Ravel, viene orchestrato in maniera sempre più massiccia, deformandolo fino a fargli assumere caratteri di autentica drammaticità. Ci si trova, a un certo punto, ad avere quasi tutta l'orchestra impegnata nell'accompagnamento, il tema relegato a un concertino di pochi strumenti: e far emergere questo manipolo di resilienti non è cosa facile, né per il direttore, né per gli esecutori. L'impresa riesce, anche se non del tutto. Si rilevano in particolare, lungo un po' tutta la sinfonia, momenti in cui questa tridimensionalità sonora si avverte chiaramente, altri in cui è fin troppo accentuata – secondo movimento, ribattuti dei flauti traverso e contralto quasi inudibili, mentre il clarinetto basso svolge le sue spire maliose, batt. 250 e sgg., quasi fin troppo marcate –, altri in cui melodia e accompagnamento vengono mantenuti distinti in virtù di un velo prossimo a lacerarsi (ché parlare di con-fusione sarebbe troppo, ma ci siamo vicini). Tale operazione è complicata dal fatto che Shokhakimov decide di raddoppiare la sezione degli ottoni, tuba a parte (rinforzo espressamente indicato dall'autore ma non obbligatorio), e di impiegare uno, due e poi tre rullanti nel primo movimento (anche questo prescritto ad libitum dall'autore) e quattro alla fine dell'ultimo! Scusabile, quindi, in questa esuberanza sonora, qualche offuscamento qua e là, considerando anche che archi e legni restano invariati.

Discorso a parte per la condotta generale del pezzo, che non fa concessioni neanche ai pochi momenti di distensione qua e là. La Leningrado è formata (un po' come la Prima di Brahms) da un mirifico movimento iniziale, da uno finale che, per quel che può, si lascia alle spalle gli orrori della guerra, e da due movimenti lenti intermedi non proprio lenti, ma atti a stemperare la tensione del primo. Di distensivo, propriamente, rimane poco, nella lettura di Shokhakimov. Né il corale dei fiati in apertura del terzo, segnato Largo , né la vera oasi quasi-lirica che segue, Adagio, sono occasioni per allentare la presa. Ma basterebbe l'attacco del Moderato (poco allegretto), il secondo, a farlo capire. Tutto scorre nel segno di una eccitazione di fondo quasi continua. Essendo organizzati come rondò liberamente reinterpretati, l'andamento di questi due movimenti centrali dovrebbe essere quello di un'altalena emotiva, con episodi che risvegliano il senso di thrilling (vedi quello in 3/8 del secondo, quasi improvvisa visione orrifica) e ritornelli che lo attenuano. Qui invece siamo sempre sul filo. Eppure, confrontando le incisioni di Mravinskij, storico direttore che tenne a battesimo diverse opere di Šostakovic, pare essere nella direzione voluta dal compositore (che poi l'intenzione del compositore sia il modo migliore di dirigere un suo lavoro, è un'altra faccenda).

La sinfonia viene ben condotta in porto, col Finale che, dopo uno scontro del più puro nervosismo šostakoviciano, cede il passo a una sezione intermedia più meditativa e a una conclusione trionfalistica (ma non trionfale): il pubblico applaude calorosamente, tributando una giusta ovazione al percussionista che per più di trecento battute ha scandito al rullante il ritmo nel primo movimento. In coda per ritirare il cappotto, qualcuno commenta: i Russi la conoscono bene, questa musica: dovrebbero suonarla gli Ucraini in questi giorni. Musica politicizzata.

Christian Speranza

7/11/2022