Rarità e tradizione
Un breve applauso ed ecco presentarsi sul podio il direttore principale dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI: Juraj Valcuha; ma, anziché dare il via alla musica, si rivolge al pubblico per chiedere un minuto di silenzio in memoria di Claudio Abbado, alla cui memoria viene dedicato il concerto. Gesto simbolico, pregno di valore: un minuto abbondante, che il pubblico di venerdì 24 gennaio, di cui riferiamo, osserva a testa china.
È in questo spirito che orchestra e direttore s'impegnano nel Nocturne Symphonique di Busoni. L'orchestra si muove sinuosa tra le volute dense e pesanti di questo brano, di cui riesce a rendere efficacemente il livore: è un notturno ben distante dalle atmosfere romantiche, quello di Busoni, misterioso, sì, ma come contorto, avvolto su se stesso, quasi personificazione della logica hegeliana, spiraliforme e non rettilinea; si avverte un certo wagnerismo nei temi cromatici, ma vi è già il superamento del linguaggio wagneriano in vista di qualcosa di più moderno. E tutto questo riesce a prender forma nella direzione di Valcuha, quell'atmosfera calma ma sempre tesa, cupa, nebulosa. Gli archi si dimostrano continuamente ben compatti, amalgamati nella struttura politonale del brano, un tappeto sonoro che non prevarica mai sulle linee melodiche, o meglio sugli accenni di linee che paiono emergere dall'orchestra come immagini oniriche distanti; molto ben dosato il tam-tam, che riesce a dare quella pennellata di sinistro, nell'eco dei colpi in pianissimo.
Decisamente più nutrita è la compagine orchestrale che si affaccia per eseguire i Quattro pezzi Op. 12 di Bartók: non capita spesso, per esempio, di vedere il raddoppio del clarinetto basso, e aumenta il numero degli archi. In continuità con il brano di Busoni, anche questo si presenta di ascolto impegnativo, con una forte componente introspettiva – tipica d'altro canto della poetica del compositore ungherese – che rende ragione dell'abbinamento in questa prima parte di concerto. Apprezzabile anche qui il fermo controllo dell'orchestra da parte di Valcuha in tutte le sue parti. Il clima pulviscolare, di apparente confusione (in realtà frutto di un sapiente bilanciamento di dinamiche), è reso alla perfezione nel Preludio, complici le arpe e il glockenspiel, che danno un che di incantato al pezzo, a tratti ravvivato dalle folate liriche di violini e viole, che si rendono frementi portavoce di un brivido nascosto nella partitura. Ma dopo la generale pacatezza del Preludio, l'attacco energico dello Scherzo, a seguire, produce un contrasto efficacissimo. Protagoniste divengono qui le trombe, rese più acide dalla sordina, in linea con la fisionomia graffiante del pezzo, insieme alla sonorità stridula (a tratti lievemente in eccesso) dei legni. Ma è nella Marcia funebre conclusiva che si svela tutta la precisione degli archi nei loro attacchi, secchi, senza sbavature. Una conduzione volutamente asciutta, che proprio in virtù di questa asciuttezza trasmette una sottile inquietudine nel finale lasciato in sospeso, come l'ultima scena degli Uccelli di Hitchcock.
In generale, quando è sotto la bacchetta del suo direttore principale, si percepisce una maggior coesione dell'orchestra, grazie sicuramente ad una grande confidenza reciproca. La scelta di due brani del genere, poi, coraggiosa e ammirevole, dato che si tratta di pagine difficilmente ascoltabili (l'ultima esecuzione dei Quattro pezzi è del 1974, quella del Nocturne Symphonique addirittura del 1966 – e solo in registrazione!), non avrebbe potuto essere affrontata con un altro direttore, poiché si è trattato di offrire alle orecchie del pubblico qualcosa di ostico, al quale non è abituato (i modesti applausi, che non hanno reso giustizia alla qualità dell'esecuzione, erano lì a testimoniarlo), e solo la sicurezza del binomio Valcuha-OSN ha potuto renderla vincente: d'altro canto, Busoni non è solo l'autore della trascrizione pianistica della Ciaccona di Bach e Bartók non è solo il compositore della Musica per archi, percussioni e celesta, e vale la pena scavare nel repertorio meno frequentato di questi (e di altri) autori per ri-scoprire, se non altro, composizioni che, in forza della loro originalità, trascendono il puro nozionismo musicale.
Degno compendio di queste rarità, una pagina di sicuro impatto, pienamente inserita nel solco della tradizione: il Concerto per pianoforte e orchestra Op. 23 di Cajkovskij: e se ad interpretarlo è un solista d'eccezione come Arcadi Volodos, il successo è assicurato. L'apertura del primo movimento pone un accento forse un po' troppo marcato sulle indicazioni di Allegro “non troppo” e “molto maestoso”: frasi musicali di dichiarata platealità, forse in omaggio a quel minuto e mezzo scarso che è uno degli incipit più famosi in assoluto; ma è un dettaglio irrilevante: perfettamente integrato alla scrittura orchestrale, il pianoforte di Volodos si fa di volta in volta arpa, flauto o violino, a seconda dell'espressività cangiante del concerto. Sicuri e precisi i passaggi in doppie ottave, che fanno pensare all'uso dell'aggettivo “strepitoso” nell'accezione che usava Liszt nei suoi brani di bravura: nella cadenza, poi, riassume tutte le abilità di cui è capace, distinguendosi soprattutto nella sezione più delicata e sognante (puntualmente rovinata da un importuno cellulare rimasto acceso).
Il secondo movimento attacca quasi distrattamente, come un'improvvisazione, incarnando così il significato dell'indicazione Andantino semplice scritta da Cajkovskij, come se non ci fosse alcuno studio preparatorio a monte. E miracolosamente, anche nella sezione centrale in cui il tempo si fa Allegro vivace assai (e poi Prestissimo), gli arabeschi del pianoforte conservano la levità tipica di un movimento lento, stasi di quiete in mezzo al fluire irruento degli altri due movimenti.
Il finale, passando attraverso le impennate virtuosistiche scivolanti sul ritmo di danza, giunge ad una conclusione trionfalistica che allarga di nuovo i tempi in funzione di una maggiore teatralità, chiudendo come aveva cominciato – una teatralità, beninteso, supportata da una carica emotiva avvertibile sottopelle: quando anni fa Lang Lang aveva presentato lo stesso concerto al Palasport Olimpico Isozaki qui a Torino, in occasione del festival MiTo, aveva reso l'esecuzione uno show ad uso e consumo di un pubblico estasiato dalla pura velocità (velocità che come un treno in corsa aveva travolto anche il fuori programma, lo “studio sui tasti neri” di Chopin, rendendolo poco più che una meccanica, marionettistica esecuzione da pianoforte a rulli). Questo per dire che, se non si esegue Cajkovskij con passione, con tutto il pathos che richiedono anche brani come la Francesca da Rimini o l'incandescente Quarta Sinfonia, non si giunge al cuore delle sue composizioni: e ci sentiamo qui in animo di riassumere l'esecuzione di Valcuha-Volodos con un unico aggettivo: appassionata.
Encore di rito, dopo gli applausi – stavolta più convinti e prolungati – sono stati il Siciliano dal Concerto per due violini e orchestra in re minore RV 565 di Vivaldi (sulla scorta della versione organistica approntata da Bach, BWV 596/3) e le Jeunes filles au jardin, delicatissimo brano tratto dalle Scènes d'enfants di Federico Mompou, di cui Volodos ha da poco inciso un disco di brani selezionati.
Christian Speranza
3/2/2014
Le foto del servizio sono di Michele Rutigliano.
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