Un insolito Verdi
Cancellato il previsto Elias Op.70 di Mendelssohn, grande oratorio per soli, coro e orchestra nato sulla scia della grande Bach-renaissance di cui Mendelssohn stesso fu, grazie alla riscoperta della Matthäuspassion nel 1829, forte propugnatore, il concerto del Teatro Regio di Torino di domenica 20 maggio 2018 ha offerto al suo pubblico i Quattro pezzi sacri per coro e orchestra di Giuseppe Verdi, seguiti dalla Sinfonia n°7 in la maggiore Op.92 di Ludwig van Beethoven: una variazione ufficialmente data da improvvisi e improrogabili impegni familiari del maestro Pinchas Steinberg, che ha permesso di inserire i brani verdiani per il 120° anniversario della loro prima esecuzione italiana, diretta da Arturo Toscanini proprio a Torino il 26 maggio 1898 (ad eccezione dell' Ave Maria, omessa per volontà dello stesso Verdi).
Un Verdi certamente insolito e poco eseguito, quello dei Quattro pezzi sacri – Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine Maria, Te Deum: quattro brani, il primo e il terzo per coro a cappella, il secondo e il quarto per coro e orchestra, senza una destinazione precisa, ma nati da esigenze espressive dell'autore (dato curioso, agnostico) e scritti nei suoi ultimi anni di vita (Ave Maria e Laudi: 1888-89; Stabat e Te Deu: 1895-97). La scelta dei testi ricade sulla tradizione liturgica cattolica per Ave Maria, Stabat Mater e Te Deum, e sulle prime terzine del canto XXXIII del Paradiso dantesco, la famosa preghiera di San Bernardo alla Madonna, per le Laudi. Sono pagine in cui il misticismo del testo lascia spazio all'operista consumato, sotto le cui mani qualunque testo diventa “teatrale”: una musica sacra da teatro, potremmo dire, affine al Requiem ma qui meno esteriore e, tranne che per brevi tratti del Te Deum, più intima.
Tutt'altro spirito ànima la Settima di Beethoven, scritta nel 1811-12, a notevole distanza dalla Sesta, ultimata nel 1808: una distanza temporale che deve indurre a riflettere su quanto ponderata debba essere stata la scelta di Beethoven di tornare al genere sinfonico. E, nell'ambito di un percorso artistico in continua ricerca e rinnovamento, se torna è per dire qualcosa di nuovo. In particolare, la Settima offre una panoramica di ciò che, più che con l'armonia, si può ottenere col ritmo: ciascuno dei quattro movimenti si impernia su un ostinato ritmico-melodico (famosissimo il ritmo anapestico dell'Allegretto), che viene sviluppato fino alle estreme conseguenze, in barba al principio forma-sonatistico del bitematismo. Quella che per Wagner fu un'apoteosi della danza e per Friedrich Wieck (padre di quella Clara Wieck che sarebbe diventata moglie di Schumann) fu scritta dalla “mano di un ubriaco” venne accolta trionfalmente solo per l'Allegretto, che venne bissato fin dalla sua prima esecuzione; il tempo, galantuomo, restituì a questa sinfonia il posto che oggi merita…
Protagonista assoluto della prima parte del concerto è il Coro del Teatro Regio di Torino, preparato ad arte da Andrea Secchi. La compattezza della massa vocale nel suo insieme è stupefacente, e ciascuna sezione, presa singolarmente – soprani e contralti nelle Laudi, scritte per solo coro femminile, tenori e bassi nei versetti d'apertura del Te Deum su linea gregoriana – dimostra di sapersi amalgamare in modo omogeneo, senza voci di punta. Ben scandita e comprensibile la dizione, anche nei passaggi a più voci. Caterina Borruso, soprano solista del coro chiamata a intonare la conclusione del Te Deum, si produce in note acute ben prese, sulla scorta della tromba che interviene in aiuto, e con la quale forma un unisono precisissimo, reso leggermente stridente dal registro difficoltoso in cui Verdi l'ha scritto. Notevoli le escursioni di dinamica del coro maschile, capace di passare con disinvoltura dai pianissimi ai fortissimi.
Alessandro Cadario, da parte sua, dirige in modo preciso e senza sbavature, benché la condotta generale dei quattro pezzi faccia emergere la loro disomogeneità di ispirazione, il loro procedere a balzi, a blocchi separati, forse in riferimento al significato di ogni versetto, da trattare autonomamente. Singolare il trattamento delle dinamiche, cangianti da piano a forte e viceversa come se si girasse la manopola di una radio: effetto che ha come artificializzato l'esecuzione.
Prima parte dedicata soprattutto al coro, seconda parte all'Orchestra del Teatro Regio, impegnata, come si diceva, nella Settima di Beethoven. A fronte di un'ottima prestazione dell'orchestra – particolarmente validi i fiati, soprattutto negli interventi del primo movimento –, la lettura offerta da Cadario non sembra cogliere appieno lo spirito dionisiaco della sinfonia, quel lasciarsi andare su un ritmo che spesso, più che avanzare, cavalca sulle note, e che qui viene raffrenato continuamente in nome di una non molto comprensibile aristocratica compostezza, salvo nella seconda parte del quarto movimento, dove finalmente l'orchestra viene lanciata in quel ritmo trascinante che quasi costringe ad alzarsi in piedi ad applaudire il genio beethoveniano: spogliandosi di ogni pudicizia, si dovrebbe qui immaginare una danza sfrenata al limite dello svenimento, un esondare in piena regola di un istinto vitale; senza questo, è ben difficile rendere al meglio il finale della Settima, verso cui sembra tendere tutto il resto della composizione. Cadario riesce a rendere solo parzialmente questo generale senso di euforia; dove gli riesce al meglio, nel terzo e, come si è detto, verso la fine del quarto movimento, si coglie un pieno controllo del suono, una buona calibrazione dei diversi piani sonori, che con intelligenza vengono condotti all'esaltazione della linea melodica a scapito delle parti di sostegno, ma che difettano nel controllo delle dinamiche, ancora una volta dando l'impressione di derivare artificialmente dalla manopola di un'invisibile radio.
Christian Speranza
23/5/2018
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