Tra due culture 
Dimenticare Putin e Macron. Almeno a partire dall'Ottocento, sul piano culturale Russia e Francia si sono sempre reciprocamente confrontate, alimentate, talvolta perfino cannibalizzate; e se Dostoevskij rinfacciava a Turgenev un'occidentalizzazione morale e una lontananza fisica dalla Russia che non gli dava più il diritto di raccontare il proprio paese, sta di fatto che nessuno scrittore russo fu capace di restituire la Francia ai lettori non francesi (e la Germania ai lettori non tedeschi) come seppe fare l'autore di Un nido di nobili. In questo rapporto osmotico tra due estetiche e due culture, Ravel e Stravinskij giocarono un ruolo importantissimo: sicché il concerto dell'Orchestra Filarmonica di Parigi e del direttore Klaus Mäkelä (finlandese: dunque, ancora una volta, un osservatore “esterno” a far da intermediario) all'Alte Oper di Francoforte si pone come una eloquentissima cartina di tornasole, tanto più nell'attuale momento storico.
Stravinskij, si sa, fece della Francia la sua seconda patria, prima di naturalizzarsi statunitense. E Ravel, a sua volta, fu uno dei più grandi sdoganatori occidentali della musica di Musorgskij (l'orchestrazione dei Quadri di un'esposizione è solo la punta dell'iceberg, ci sarebbe da citare pure la rielaborazione di Kovancina, tra l'altro in collaborazione proprio con Stravinskij): testimonianza non solo di un amore incondizionato verso le partiture musorgskiane, ma di un vero e proprio iter creativo – da parte di Ravel – che vedeva nella musica russa una sorta di piattaforma ermeneutica, che dissolveva le vecchie strutture logico-dialettiche del sinfonismo tedesco in favore dell'impressione descrittiva, dell'andamento paratattico, dello sviluppo per via di analogie.
Tutto questo si ritrova nel concerto di Mäkelä e della Philharmonie parigina, che trova appunto nel Ravel rapsodico di Ma mère l'Oye e dei Quadri l'alfa e l'omega della serata, con Petrushka – la suite dal balletto nella revisione del 1947, dunque uno Stravinskij del primo periodo americano – a fare da intermezzo. Di Ma mére l'Oye, Mäkelä sembra restituire innanzi tutto il retroterra pianistico (benché se ne proponga ovviamente la trascrizione per orchestra), la sua sottigliezza rarefatta, ma anche un certo gusto scattante che crea una felice alternanza con i tempi lenti e moderati che costellano la partitura. Ne sortisce un'interpretazione – nonostante il sottotitolo di Cinq pièces enfantines apposto in partitura – tutt'altro che “per l'infanzia”, ma ricca di sottigliezze dialettiche e inquietudini sottopelle: suona quasi angoscioso il secondo movimento, quello di Pollicino che non ritrova le briciole di pane che gli indicavano il sentiero.
La lettura di Quadri da un'esposizione, per contro, esalta proprio la struttura sinfonica con cui Ravel ripensa l'originale pianistico di Musorgskij. Qui Mäkelä lavora, sì, sull'impressione coloristica e su quella dialettica timbrica chiamata a descrivere il transito dalla visione pittorica alla visione musicale, ma si concentra anche – e forse soprattutto – sull'ampiezza delle forme e lo sfavillamento delle sonorità (esemplare l'ultimo movimento, quello della Grande porta di Kiev): lasciando invece alle “passeggiate” che contrappuntano il transito da un quadro all'altro quella componente quotidiano-borghese (cameristica, in senso lato) che rimanda più esplicitamente al disegno di Musorgskij.
Conscio che Stravinskij è meno congeniale di Ravel agli orchestrali francesi, di Petrushka il direttore finlandese propone invece una lettura certo non depurata o addomesticata (lo stacco dei tempi è incalzantissimo), ma tuttavia memore – almeno in parte – dello Stravinskij precedente: dove, cioè, sonorità taglienti e asprezze coloristiche convivono ancora con qualche connotazione impressionistica. Ne sortisce un Petrushka non poi così lontano da suggestioni raveliane, che rafforza ulteriormente il legame Francia-Russia che sovrintende all'impaginazione della serata. Mäkelä d'altronde ha ventinove anni: l'età giusta, quando si ha talento, per abbinare la freschezza alla profondità. Almeno se si è un direttore d'orchestra. Per i cantanti, il più delle volte, funziona diversamente: il maturo è l'anticamera del marcio, lo spessore interpretativo inizia laddove il declino vocale ormai è in atto. Ma questa è un'altra storia.
Paolo Patrizi
12/3/2025
La foto del servizio è di Andreas Etter/Pro Arte Frankfurt.
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