Suggestioni alpine
A Gabriele “Gabbo” Boetti 09/06/1989 – 07/01/2019
Gabriele amava la montagna. Quasi ogni fine settimana partiva per un'escursione, da solo o in compagnia, e tornava dopo una notte o due. Una mattina è partito e non è più tornato. Sulla Stampa dell'8 gennaio 2019, pagg.40-41 potete vedere una sua fotografia.
Il concerto tenutosi all'auditorium Arturo Toscanini di Torino una settimana dopo, mercoledì 16, con replica il 17 (di cui si riferisce), avrebbe dovuto essere il suo regalo di compleanno. Gliel'avevo promesso. Prediligeva il barocco, i sopranisti e lo Scarlatti di Pogorelich, ma volevo che ascoltasse anche altro. L'occasione giusta sarebbe potuta essere il settimo appuntamento della stagione con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), che ha presentato Eine Alpensinfonie Op.64 e i Vier letze Lieder Op.150 di Richard Strauss. Quattro Lieder che parlano di tramonto, di fine di qualcosa, di congedo: mai come questa volta l'Op.150 è servita da meditativo preludio alla celebrazione dello spettacolo alpino in musica, ed è significativo che Strauss abbia iniziato la composizione del suo ultimo poema sinfonico (giacché di sinfonia l'Op.64 ha soltanto il nome) alla notizia della scomparsa di Mahler, il 18 maggio 1911: al congedo dei suoi giorni mortali. Sulla valenza filosofica, più che pittorica e onomatopeica della composizione ci sarebbe da discutere. Stando agli appunti preparatori, avrebbe dovuto intitolarsi L'Anticristo, rifacendosi a quel Nietzsche che anni prima gli aveva già fornito spunti musicali con lo Zarathustra. Poi la composizione, negli anni a seguire (ultimata nel 1915), prese una piega sempre più descrittiva e il progetto iniziale fu abbandonato. Prevalse l'amore per la montagna, senza troppe sovrastrutture. Grandi amici in vita, amanti entrambi dei paesaggi alpini (Gustav trovava ispirazione quasi esclusivamente tra le Dolomiti), era inevitabile che prima o poi dedicassero parte della loro produzione alla meta di molte vacanze.
Si respira, nei Vier letze Lieder di Strauss, quel clima da capolinea, salutato con lo sguardo retrospettivo di chi sa prendere le giuste distanze dal passato. Le prime tre liriche portano la firma di Hermann Hesse. Frühling (Primavera) parla dell'arrivo della bella stagione, ma vi è un entusiasmo ben diverso da quello con cui il Boccadoro hessiano, nel romanzo, si affaccia alla vita e allo sbocciare dell'adolescenza. Con September contempliamo un giardino nella tarda estate, con le gocce d'oro stillanti dalle foglie di acacia che richiamano le gialle pere di cui si incurvano gli alberi di Metà della vita di Hölderlin; Bein Schlafengehen (Andando a dormire) è la preghiera con cui una mente troppo affollata di pensieri chiede di trovar pace nel sonno. Resta Im Abendrot (Al tramonto) di Joseph von Eichendorff: il tramonto che si adagia su una coppia che ha vissuto molto, intrisa di un'estenuante struggimento, un cupio dissolvi decadente ante litteram. Significativo che anche l'ultimo Mahler si sia rivolto a testi poetici di spirito affine, le due liriche cinesi (tradotte in tedesco) fuse assieme a concludere il Lied von der Erde: se non proprio l'ultimo, uno degli ultimi lavori cui pose mano, fra il 1908 e il 1909 (morirà due anni dopo): e Strauss musicò i Lieder nel 1948, un anno prima della sua morte. Come se entrambi presentissero e dovessero metterlo su carta. Ma si sa che gli artisti trovano spesso in queste notti dell'anima la scintilla che le fa brillare a giorno.
Niente a che vedere con Eine Alpensinfonie, scritta per un organico enorme, inclusi strumenti inusuali quali la macchina del vento, la macchina del tuono, i campanacci (memori della Sesta e della Settima dell'amico Mahler?) e l'heckelfono, il tenore degli oboi, impiegato da Strauss anche in ambito teatrale, come in Salome e in Elektra . Un dispiegamento di forze orchestrali che gli fece dire, al termine della composizione, e possiamo credere con evidente falsa modestia: «Finalmente ho imparato a orchestrare!». La forma è quella tipica del poema sinfonico: un unico, monolitico torso strumentale in cui due-tre temi conduttori tornano, ripresi e variati (wagnerianamente) tanto nell'armonia, quanto nella forma e, di conseguenza, nel significato, con l'intento di narrare in musica una trama o lo svolgersi di eventi – in questo caso l'ascesa alla vetta di una montagna attraverso diverse tappe, dalla partenza, poco prima dell'alba, su, su, passando per il bosco, la cascata, il pascolo, il ghiacciaio, fino in cima, dove il rapimento della visione dall'alto fa distrarre l'alpinista che, malcauto, non s'avvede del temporale che lo costringe ad una rapida e fortunosa discesa (Strauss doveva avere ancora in mente l'episodio molto simile che gli capitò da ragazzo). Il tutto cessa nel silenzio, nella notte, proprio com'era iniziato, apparentando così questo brano a quella forma ciclica che, dalla Sonata in si minore di Liszt, passando per la Sinfonia in re minore di Franck, aveva pian piano conquistato terreno.
Sul podio è stato chiamato l'americano Robert Trevino, dal 2017 direttore dell'Orchestra Nazionale Basca e dal 2018 direttore principale della Malmö SymfoniOrkester. La sua è una direzione accurata, che tiene debitamente conto delle molte sfumature e delle difficoltà che un organico mastodontico come quello della Alpensinfonie riserva, e dà modo al pubblico di immergersi in un'esperienza di suono totale (d'altronde non si può non essere goethianamente “tratti verso l'alto” da una musica del genere). L'OSN, per parte sua, tiene alta la fama, conquistata concerto dopo concerto, di formazione solida, dal suono netto e preciso, e pace se, nei momenti più concitati, la sezione degli ottoni cade vittima di qualche scivolone, le trombe incappando in note acute non proprio nitide (durante il temporale) e i tromboni in passaggi di agilità resi un poco goffamente. Resta un'esecuzione nel complesso interessante e coinvolgente, che merita di essere ricordata.
Meno efficace, per contro, la resa dei Lieder, non tanto per Trevino o per l'OSN, impeccabili, quanto per il soprano Dorothea Röschmann. S'intenda: la Röschmann è dotata di una voce solidissima e corposa, con quel timbro caldo e scuro che la rende adatta per ruoli drammatici e dall'impegno non indifferente. Forse anche per questo fornisce un'interpretazione a tratti più eroica che intima, più declamata che recitata: il che è sembrato fuorviante, visto l'ambito testuale dei Lieder, affini in spirito al Winterreise schubertiano, introspettivo e per così dire monologante. Si tratta in fondo di riflessioni messe in poesia, quelle di Hesse e Eichendorff. Neanche l'emissione vocale convince, risultando profondamente discontinua: scoppi di voce stentorei si alternano a momenti quasi inudibili, sprofondati dentro il suono dell'orchestra, la quale, forse, lavorando di concertazione, sarebbe stato possibile adattare alle sue possibilità foniche (che non ci sia stato il tempo?). La sillabazione del testo, poi (non la pronuncia, essendo tedesca madrelingua), non cristallina, inficia la piena comprensione dei testi, che invitano alla riflessione parola dopo parola. L'espressività di una composizione come il Lied, dove la musica è cucita sul testo, è esaltata dall'accentazione delle parole e dallo scavo che si fa su di essa. Venendo meno questo lavoro di bulino, resta la componente musicale, di per sé affascinante, ma non sufficiente a trasmettere tutta la portata delle parole. Avrei potuto spiegarlo a Gabbo, dopo il concerto.
Ora non più.
Christian Speranza
28/1/2019
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