L'allievo e il maestro (sì, ma che allievo!)
Un cambio dell'ultimo minuto ha fatto sostituire il previsto Salmo 83 per soli, coro e orchestra di Alexander von Zemlinsky con il Preludio del Lohengrin di Richard Wagner. Invariata invece la seconda parte del programma, con la Sinfonia n.4 in mi bemolle maggiore WAB 104 Romantische di Anton Bruckner. Stiamo parlando del terzo concerto della stagione sinfonica del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste, sabato 1 ottobre 2022.
Tant pis et tant mieux: se da un lato abbiamo rinunciato a un brano di rarissimo ascolto e d'innegabile fascino (ingiustamente trascurata è la produzione di Zemlinsky, adattissima a rappresentare il milieu mitteleuropeo fin de siècle adombrato dal nembo della finis Austriæ: «Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute» - Joseph Roth), dall'altro la programmazione si avvantaggia di una maggiore coerenza interna. Il rapporto umano, più che strettamente musicale, tra i due autori, è talmente paradigmatico della coppia allievo-maestro, che all'epoca vennero prodotte addirittura satiriche vignette e silhouette (Otto Böhler fecit) di un Bruckner in atteggiamenti sussiegosi verso un Wagner evidentemente compiaciuto di tali attenzioni (megalomane com'era, vien da credere che gli venisse piuttosto spontaneo!): una dove prende il tè coi biscotti, una dove accetta una presa di tabacco, ecc. Ma, al di là di facili ironie, il fatto che Bruckner considerasse Wagner «il maestro di tutti i maestri» non mette quello nei rapporti di un mero epigonismo di questo: prova ne sia che, mentre Wagner dedicò tutta la sua vita al teatro, Bruckner, dopo una fase iniziale di composizioni prevalentemente sacre, fu ammaliato dalla «febbre della sinfonia» (Brahms). E non compose mai un'opera. Piuttosto, da dopo l'incontro con Wagner, che culminò con la dedica al maestro della sua Terza Sinfonia (la Wagnersymphonie, appunto), si iniziò ad apprezzare in Bruckner un trattamento armonico e strumentale à la Wagner, i cui esiti più evidenti saranno l'Ottava e l'incompiuta Nona. Ma furono soprattutto gli apprezzamenti personali sulla sua musica che confortarono Bruckner dei già ripetuti insuccessi (la stessa Wagnersymphonie fu fischiata e coperta di ridicolo alla prima esecuzione, nonostante due giovanotti si fossero spellati le mani a forza di applausi: gli ancora sconosciuti Hugo Wolf e Gustav Mahler; quest'ultimo poi ne curerà la riduzione per pianoforte a quattro mani). Venendo al programma, il Lohengrin e la Quarta hanno un duplice filo che li lega. Il primo è di natura musicologica: sono entrambe opere collocate tra la fine di un periodo di apprendistato e l'inizio di uno stile personale riconoscibile. La triade Fliegende Holländer – Tannhäuser – Lohengrin consolida il Wagner maturo (e il Lohengrin, il cui libretto scrisse nel 1845 e musicò dal 1846 al 1848, ne è il coronamento), pronto finalmente per i futuri Ring, Tristan, ecc., così come la Quarta inaugura il Bruckner maturo, forte ormai di una ricerca identitaria perseguita lungo cinque sinfonie (due non numerate, tre sì). Secondo: entrambe le composizioni parlano di un Medioevo idealizzato, favolistico, libresco, una che si muove tra il mistico e il magico, fra un cavaliere del Graal che scende nel Brabante «a miracol mostrare», fra duelli, magie e sortilegi, l'altra, detta Romantica dall'autore stesso (o meglio: detta Romantica da Schalk e che Bruckner avallò: cosa unica nel suo repertorio: pur simpatizzando per Liszt e i suoi Poemi sinfonici, Bruckner non scrisse mai altra musica a programma) che «allude, senza concedersi, a timidi suggerimenti programmatici, ma evocativi e mai descrittivi» (Sergio Martenotti) agendo su suggestioni sonore in cui è il corno a farla da padrone: il primo movimento della dovrebbe rappresentare l'appello del mattino dalla torre della città, l'uscita dei cavalieri, il richiamo Zi-Zi-Be della cinciallegra; il secondo, una passeggiata nel bosco; il terzo, la caccia, seguita da un placido convivio di cacciatori; il quarto, una festa popolare (Volkfest), almeno nelle versioni intermedie. Sì, perché, tra la prima stesura, del 1874, e l'ultima, del 1887-88, trascorrono quattordici anni, durante i quali si susseguono da tre a sette versioni, a seconda di come si voglia considerarle, in cui i due cambiamenti più rilevanti sono: la sostituzione, nel 1878, del primo Scherzo con uno del tutto nuovo (lo Jagdscherzo, lo Scherzo di caccia) e profonde rielaborazioni del Finale (e il Volkfest non è neanche l'ultima, ma quella intermedia, poi scartata).
Il concerto, svoltosi senza pause, ha visto eseguire nell'ordine prima il Preludio e poi la Sinfonia, con Nikolas Nägele alla testa dell'Orchestra della Casa. L'impressione generale è quella di avere a che fare con un'orchestra dotata sia di ottimi solisti, sia di un suono globale organizzato, tale da rendere con lucidità e i pieni orchestrali, e i ricami degli a solo: mi riferisco ai numerosi passaggi per corno lungo tutta la Sinfonia, agli interventi di flauto e oboe nei momenti più intimistici dell'Andante quasi Allegretto (il secondo movimento), ai legni tutti nel Trio dello Jagdscherzo.
Nel Preludio, invece, qualche esitazione negli attacchi degli archi, in apertura e in chiusura di movimento. Piuttosto normale, data la difficoltà esecutiva di questa apertura, confinata nel registro sovracuto dei violini, che devono suonare divisi in otto (8!!!) parti, quattro ai primi e quattro ai secondi, pianissimo e con sfumature eteree, quasi pulviscolo sonoro, nebbia rarefatta e indistinta dalla quale pian piano emerge, ultraterrena, l'armatura lucente di Lohengrin (o la discesa del Graal, secondo le intenzioni di Wagner): pulviscolo e nebbia che non riescono ad essere resi al meglio, il suono essendo ancora troppo materico e potente. Prevedibilmente, data la qualità dell'orchestra, l'esecuzione migliora man mano che il brano prende corpo, rimpolpandosi di strumenti e raggiungendo, al suo climax (intervento dei timpani e ancor più dei piatti), vette di autentica emozione. Merito anche di una direzione, quella di Nägele, oculata, equilibrata, attenta a non strafare con le dinamiche, ben contenute, per conservare quell'atmosfera di nobiltà e dignità insita tanto nel personaggio, quanto nella musica che lo descrive.
Impressioni in parte smentite e in parte confermate nella direzione della Quarta . Parliamoci chiaro: Bruckner è un autore difficile da dirigere. È pur vero che, volendo fare le cose per bene, anche una sinfonia giovanile di Mozart (che tra archi, un paio d'oboi e un paio di corni arriva a una ventina di elementi in tutto) può risultare difficile: ma per dirigere i mastodonti bruckneriani occorre non solo un controllo di un'orchestra di dimensioni considerevoli (proprio dalla Quarta in avanti, tra l'altro, Bruckner inizia a includere anche la tuba), ma una sensibilità che porti a interpretare un contenuto a volte contraddittorio. Quell'appello del corno, in apertura di movimento, su un tappeto di archi in tremolo, è il sonnacchioso risveglio di un organismo sonoro, un po' come il Preludio del Rheingold (stessa tonalità, stessa nota grave tenuta ai bassi, stesso strumento, il corno, usato per dare inizio al tutto): deve trasmettere quella sensazione di “ingranare” un po' alla volta. Eseguito alla velocità imposta da Nägele, sostenuta anzichenò, perde buona parte del fascino aurorale che gli è proprio. E ciò non permette di entrare a dovere nell'ottica del pezzo. Stessa cosa per l'allegro richiamo della cinciallegra, ancor più velocizzato e che resta somigliante a una marcetta (senza l'orchestrazione – ovviamente – di una marcetta). In sintesi, Nägele coglie l'aspetto più febbrile, più concitato, del movimento (pur con oasi di stasi di appropriata interpretazione, durante lo sviluppo), e lo stesso dicasi per lo Scherzo, soprattutto nelle due parti estreme, troncate all'ultima nota del richiamo (ancora una volta) dei corni come con l'accetta (e può anche essere giustificata, questa troncatura, dalla “rudezza” di fondo del pezzo) in contrasto con la morbidezza dei legni nel già citato Trio . Quando invece la scrittura bruckneriana si semplifica, come nel secondo movimento, ecco trovare Nägele in stato di grazia nel trasmettere all'orchestra il giusto corpo sonoro.
Sfuma infine l'impressione di suono controllato nel Finale, basato come il primo sul tritematismo, ma più difficile a cogliersi, essendo i temi simili fra loro, e collegati attraverso continui saliscendi emotivi di scoppi d'orchestra e concertini (il retaggio dello stile organistico bruckneriano, che si legge in tutti i testi, di procedere per “blocchi”), tali che, all'ultimo, non si sa se applaudire o no, se il movimento riprenderà o se sarà finito. Di qui la maggiore difficoltà di affrontare questo pezzo (invero molto ripensato e costruito, e forse per questo più problematico, con artifici contrappuntistici quali l'inversione di alcune cellule melodiche) come un continuo crescendo, senza farsi traviare dai frequenti fortissimo, in modo da calibrarli in vista dell'ultimo. Questo porta l'orchestra (giustamente anche provata dal programma a finora eseguito) a lasciarsi andare in emanazioni sonore non controllate, che giungono all'orecchio come affastellate, confuse, fuori fuoco. Controbilancia questa tendenza un'effusione lirica encomiabile dei passaggi melodici più caldi, soprattutto agli archi, con piena soddisfazione anche degli stessi orchestrali e di Nägele stesso, sprofondato, a vedere dalle sue espressioni, nella partecipazione più viva degli stessi, pur conservando un gesto direttoriale non troppo teatrale.
Convinti gli applausi tributati dal pubblico e numerosi i richiami sul palco.
Christian Speranza
4/10/2022
Christian Speranza
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