RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Parola d'ordine: Russia

Russo da cima a fondo il programma proposto dall'ottavo appuntamento dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, all'auditorium Arturo Toscanini di Torino, giovedì 18 e venerdì 19 dicembre 2014: sotto la direzione di James Conlon, pluripremiata personalità del mondo musicale contemporaneo (vincitore nel 2009 di due Grammy Awards, come migliore incisione classica e miglior album operistico), è fiorito un variegato bouquet musicale, per certi versi anche didattico – prova ne sia la presenza di una scolaresca nel pubblico di venerdì, di cui si riferisce –, comprendente una sinfonia, un concerto solistico e brani dall'architettura più libera tratti dal repertorio operistico.

La serata ha preso avvio proprio da questi brani, una selezione di passi dalla Chovanšcina, opera di Musorgskij di argomento nazionale russo, rimasta incompiuta e qui proposta nell'orchestrazione di Šostakovic (1958-59), di cui è riconoscibile l'impronta in pochi ma fondamentali gesti strumentali, uno su tutti l'impiego del rullante, dal vago sapore militaresco. Il Preludio all'atto I descrive l'alba sulla Moscova, col Sole a illuminare la piazza del Cremlino e con tanto di campana ad evocare liturgici rintocchi: brano aurorale ed etereo, quanto cupo, minaccioso e sofferto è l'Esilio di Golitsin, tutto giocato su fiati gravi, ottoni sferzanti e archi a mezza tinta; infine, la Danza delle schiave persiane, con le sue movenze orientaleggianti, per certi versi affine al Rimskij di Sheherazade, riporta la timbrica chiara dei violini, trasparente come i veli delle odalische disegnate dalla musica. Così disposti, questi brani, pur non essendo nati per essere così accostati, hanno ricordato il taglio in tre di un concerto, col movimento centrale a mo' di oasi pensosa in mezzo a due brani più aerei, leggeri come ali di libellula.

Conlon si dimostra direttore attento ed elegante, misurato nei tempi (forse a volte troppo) e in grado di dosare le timbriche orchestrali con sapienza. Plauso particolare ai soli di clarinetto (Enrico Maria Baroni) e corno inglese (Teresa Vicentini), che vengono fatti alzare al termine di questa prima parte.

Giusto il tempo per collocare il pianoforte davanti al podio, e si è pronti per ascoltare il Primo Concerto Op. 1 di Sergej Rachmaninov. Di fronte alla dilagante popolarità (peraltro meritatissima: ci mancherebbe altro) del Secondo e del Terzo, il Primo e il Quarto Concerto di Rachmaninov vengono eseguiti con imbarazzante rarità. L'occasione è dunque ghiotta: non solo però per apprezzare questa pagina stupenda, che già sancisce, pur essendo la prima del catalogo, la piena padronanza della materia da parte di un diciottenne che si sentiva compositore e che tutti relegavano (e relegano sovente ancor oggi) a puro pianista, e che con questa composizione dimostra in un colpo di essere e l'una e l'altra cosa; ma anche per ascoltare una solista ospite per la prima volta dell'OSN: Lise De La Salle. La giovane artista (classe 1988) debutta sulla piazza di Torino con il non facile pianismo di Rachmaninov, nella cui espressività pare però trovarsi a suo agio. Il piglio è deciso, fin dall'apertura, affidata, dopo poche note ribattute di clarinetti, fagotti e corni, ad una frase che, come una scarica elettrica, attraversa dall'alto in basso l'intera tastiera, giusto per far capire chi comanda. Il solista, nel mondo musicale di Rachmaninov, entra in scena così, alla pari fin da subito con l'orchestra (come Mozart aveva provocatoriamente fatto per primo nel Concerto “Jeunehomme” – 1776). E poi via alla prima delle grandi battaglie solista-orchestra che caratterizzeranno sempre il suo stile, ardito e appassionato, ma anche capace di meravigliose stasi oniriche. L'esecuzione di De La Salle è notevolmente pulita, ma sembra qua e là mancare di brillantezza e passionalità (per chi ha presente l'incisione di Richter del 1955 con Kurt Sanderling). E sebbene gli si possano imputare diversi passaggi poco sbalzati al di sopra dei blocchi strumentali, per una apparente mancanza di forza fisica, ci si deve ricredere di fronte alle energie sfoderate durante la cadenza; ma il gesto pianistico resta sempre elegante, ravvivato qua e là da movenze aggraziate d'impronta squisitamente femminile.

Il secondo movimento, che inizia come l'aprirsi di un pesante tendaggio su una mattina livida e fredda, viene affrontato in modo sospiroso, con un abbandono romantico nelle digressioni solipsistiche, che verso la fine svaporano con tocco carezzevole verso le regioni acute del pianoforte, per poi planare, riposando su un pacificato accordo di re maggiore. Ma non c'è tempo per sognare: sfruttando l'effetto sorpresa, Conlon fa sobbalzare tutti sulla sedia attaccando immediatamente il terzo movimento con impeto. Il talento di De La Salle emerge qui in modo evidente nell'esecuzione dalle evoluzioni pirotecniche, condotte con neppur troppo dissimulata scioltezza.

Resta di fatto una performance ben riuscita sotto molti aspetti, e d'altro canto, scorrendo il suo curriculum, non ci si poteva aspettare di meno: precoce talento del pianoforte (inizia a suonare a quattro anni, a nove il suo primo concerto) e vincitrice di numerosi concorsi, ha saputo muoversi disinvolta tra le impervie asprezze della scrittura di Rachmaninov, restituendone al pubblico il fascino al tempo stesso angelico e demoniaco. Auspichiamo riascoltarla presto in altre ed altrettanto emozionanti esecuzioni.

A ringraziamento dei tanti applausi ricevuti, la De La Salle ha risposto con un Prélude di Debussy, anch'esso accolto da entusiasti battimani.

Chiude infine la serata la Quarta Sinfonia in fa minore Op. 36 di Cajkovskij, capolavoro del 1877-78 scritto a seguito di particolari avvenimenti della vita del compositore – il matrimonio di facciata con Antonina Miljukova, l'impossibilità di confessare e vivere serenamente la sua omosessualità (c'è da chiedersi quanto sia cambiato, in questo senso, dal 1877 ad oggi, non tanto dal punto di vista legale quanto da quello dei pregiudizi…), l'incontro con Nadežda con Meck, sua mecenate e dedicataria dell'Op. 36. Conlon ne offre una lettura equilibrata, sobria, ma non priva di mordente, sapendo far emergere dal tessuto orchestrale non poche particolarità della partitura – strumentata con lussureggiante perizia anche là dove apparentemente sembrerebbe inutile aggiungere note o colore, in quegli accompagnamenti nascosti che, come un fiume sotterraneo, vitalizzano la superficie della melodia –, una su tutte, quelle scale cromatiche discendenti dei legni (batt. 70-71 e 74-75) e dei corni (batt. 78 e 80) nel primo movimento, sardoniche come risate beffarde, sorde alle preghiere appassionate degli archi. Da segnalare poi l'attenzione alle dinamiche, molto ben differenziate fra piano e forte, nel pizzicato ostinato del terzo movimento e il grande, mutevolissimo gioco di luci e ombre nel quarto, sorta di riassunto ironico di tutta la sinfonia: bisogna nascondere il proprio tormento al di sotto di una scintillante facciata, perché, citando Andrea Guerzoni, «La più grande libertà è non dover essere allegri a tutti i costi»: ma spesso si tratta di una libertà che viene negata.

Christian Speranza

26/12/2014

Le foto del servizio sono di Michele Rutigliano.