RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Concerto fugato

Un concerto tutto incentrato sulla forma musicale della fuga, quello di mercoledì 11 dicembre 2019 al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino (serie Pari dei Concerti dell'Unione Musicale). Questo mostro di complessità e di bellezza contrappuntistica, che non per nulla si affronta solo alla fine del settimo anno di Composizione, lungi dall'essere incatenato a sterili regole scolastiche, si presta a declinazioni e stili diversi, dagli schemi più rigorosi fino a licenze, eccezioni e vere e proprie libertà. Ed è con questo intento, esplorare cioè le diverse possibilità espressive della fuga, che Piotr Anderszewski compone il programma di questo recital pianistico.

Non si può non partire da Johann Sebastian Bach e da una selezione di Preludi e Fughe dal Clavicembalo Ben Temperato: quelli del secondo libro, però, del 1744, che, a ben ventidue anni dalla pubblicazione del primo, vedono un alleggerimento di gran parte delle Fughe, che passano da una media di quattro voci a una media di tre, e per contro un ampliamento dei Preludi, visti come un laboratorio per sperimentare forme e soluzioni diverse: in taluni casi si giunge addirittura ad avere, all'interno di un singolo Preludio, una struttura bipartita con doppio ritornello affine alle Sonate di Scarlatti e alla futura forma-sonata. Anderszewski seleziona il n°1 in do maggiore BWV 870, il n°17 in la bemolle maggiore BWV 886, il n°8 in re diesis minore BWV 877, il n°23 in si maggiore BWV 892 e il n°7 in mi bemolle maggiore BWV 876 e il n°18 in sol diesis minore BWV 887.

Da Bach si passa poi a un suo estimatore dell'Ottocento, Robert Schumann, e ai suoi Sette pezzi per pianoforte in forma di Fughette Op.126: pagine dell'ultimo Schumann (1853: sarebbe morto tre anni dopo) permeate di una dolce e quieta malinconia diffusa, meditativa più che triste, affine a molte pagine della stessa stagione creativa, una su tutte il Concerto per violoncello e orchestra in re minore Op.129.

Ultima stagione creativa anche per Beethoven, di cui viene presentata la Sonata per pianoforte n°31 in la bemolle maggiore Op.110, del 1821-22, che costituisce, assieme alla n°29 in mi maggiore Op.109 e alla n°32 in do minore Op.111, la triade conclusiva del corpus pianistico beethoveniano. Una Sonata che rispecchia un modo di comporre radicalmente diverso da quello per cui Beethoven è di solito conosciuto, composizioni telluriche e fluviali quali l'Eroica o la Nona. Nelle ultime Sonate vi è anzi la tendenza a contrarre, ad asciugare, a esercitare la sintesi, oltre che a far emergere un linguaggio nuovo, con meno contrasti, o, se si vuole, con contrasti più sfumati, più evanescenti. Così, il primo movimento è ancora in forma-sonata, ma compresso e stravolto, mascherato, quasi irriconoscibile al primo ascolto, complice anche l'adozione di un'agogica lenta, Moderato cantabile molto espressivo. A questo segue il secondo movimento, un Allegro, in forma di Scherzo con Trio e ripresa (ma in 2/4 anziché in 3), e si entra velocemente nel terzo: introduzione a recitativo (Arioso dolente nello spartito), fuga, intermezzo lento ( Perdendo le forze ) e ripresa della fuga (con soggetto invertito) che conduce alla conclusione. L'idea di un movimento finale in forma fugata doveva sorridere molto al Beethoven ultima maniera. Già nel finale della Sonata n°28 in la maggiore Op.101, del 1816, si nota una forte componente contrappuntistica; con la Sonata n°29 in si bemolle maggiore Op.106 “Hammerklavier” (1817-19) si ha come finale una “Fuga a tre voci con alcune licenze”, interrotta cioè da intermezzi. E addirittura, quando si fece prendere la mano, Beethoven scrisse un movimento fugato di una tale complessità e lunghezza come finale per il Quartetto per archi n°13 Op.130, che alla fine si convinse a pubblicarlo separatamente. È il retroscena della Grande fuga per quartetto d'archi in si bemolle maggiore Op.133.

Questo percorso nei meandri della fuga è condotto da Anderszewski, pianista e compositore polacco classe 1969, con la cifra stilistica dell'introspezione. Il suo Bach è fortemente personalizzato, distantissimo da certe esecuzioni meccaniche e fredde, che mettono in luce, sì, la complessissima trama di soggetto, controsoggetto, risposte e stretti, ma solo quella: qui si ha un Bach romantico, caldo, vivo. Quasi tutti i brani sono in tempo lento, e ogni nota è lavorata, scavata, approfondita. Si ha modo di entrare pian piano non solo nella musica, ma dentro di sé. Quello che Anderszewski fa compiere all'ascoltatore, infatti, è un vero e proprio viaggio alla scoperta di sé. Prova ne sia che i Preludi e Fughe selezionati non sono eseguiti nell'ordine in cui si presentano nella raccolta, ma come sono stati elencati all'inizio di questo articolo. Vi è la volontà da parte di Anderszewski di organizzare un percorso di ascolto. L'esecuzione delle Fughe è così mirata non solo a evidenziare la trama polifonica, che per altro emerge chiaramente grazie a una calibrazione calcolatissima delle singole voci, ma a farne brani emozionali che permettano di scendere, ripetiamo, dentro di sé e dentro i propri pensieri.

Stessa cosa dicasi per Schumann, dove l'esecuzione diventa ancor più intimistica, quasi un dialogo a due tra il pianoforte e ogni singolo ascoltatore. E, senza frapporre pause di sorta, il concerto scivola con naturalezza dall'ultima Fughetta di Schumann al primo movimento dell'Op.110 di Beethoven, rendendo arduo, per chi non conoscesse in anticipo i brani, distinguere la fine di uno l'inizio dell'altro: un piccolo escamotage per rendere ancora più immersiva l'esperienza di ascolto, per sublimare il dubbio del “devo applaudire adesso?”, che nel neofita spesso ingenera il distacco tra l'immedesimazione della musica e il comportamento da tenere per convenzione a un concerto (una delle cose più innaturali, per lo spirito, a ben pensarci): per sublimarlo e al tempo stesso risolverlo nella maniera più semplice: senza porselo. Un escamotage adottato in certi casi da Grigorij Sokolov, forse per lo stesso motivo. Quanto a Beethoven, l'impressione è stata la stessa di quando si ascolta l'Op.117 di Brahms: che quando si è in due ad ascoltare, compreso il pianista, si è già in troppi. Era come se Anderszewski, specialmente nel movimento finale, in quegli intermezzi dove Beethoven scrive in italiano per due volte dolente, suonasse solo per se stesso, e in questa maniera riuscisse ad essere più comunicativo di ogni altro modo più esteriore di porsi.

In risposta agli applausi, a fine concerto, due fuori programma perfettamente in linea con il mood della serata, tratti dai Canti dell'alba Op.133, ancora di Schumann.

Christian Speranza

20/12/2019