The Tender Land di Copland
La prima italiana
Sulla scia del successo di Amahl e i visitatori notturni di Gian Carlo Menotti, ai primi degli anni Cinquanta la Lega dei Compositori Americani commissionò ad Aaron Copland un'opera per la rete televisiva NBC. Fu lui stesso a optare per Let Us Now Praise Famous Men di James Agee (1941), libro all'epoca molto famoso; ma quello che di fatto è un reportage fotografico di famiglie contadine impoverite dalla crisi del '29 non era proprio un soggetto adatto a un'opera, privo di trama, pur se documentato dalle foto di Walker Evans. Ci pensò il librettista Horace Everett, pseudonimo di Erik Johns (Horace Eugene Johnston), a estrapolarne una.
Midwest, anni Trenta. Ma Moss (contralto) aspetta che il postino Mr. Splinters (tenore) consegni l'abito confezionato per la figlia maggiore, Laurie (soprano), che il giorno dopo si diplomerà al liceo. Mr. Splinters accenna a due brutti ceffi che pare abbiano aggredito delle ragazze nella contea vicina, e dice a Ma Moss di stare all'erta per Laurie e per la sorellina Beth (ruolo parlato). È appena uscito, che entrano in scena due vagabondi, Martin (tenore) e Top (baritono). Sono alla ricerca di un posto dove mangiare e passare la notte, quando si imbattono in Laurie. Entra in scena anche Grandpa Moss (basso), nonno di Laurie, che, dopo un'iniziale diffidenza, li assume come braccianti per la fienagione in cambio di vitto e alloggio. Di più: vengono invitati alla festa del diploma che si terrà quella sera stessa. Durante la festa, Ma Moss ha il sospetto che i due siano gli stessi aggressori di cui ha sentito parlare, e manda Mr. Splinters a chiamare lo sceriffo. Intanto Laurie e Martin escono in disparte duettando. Laurie sogna di andarsene dalla realtà rurale in cui è e in cui si sente confinata, e progetta di scappare assieme a Martin; scatta il colpo di fulmine e il bacio, ma la loro assenza viene notata e Grandpa Moss li scopre. A nulla vale che Mr. Splinters torni con la notizia che gli aggressori sono appena stati catturati: i vagabondi devono andarsene il mattino seguente. Laurie, decisa a seguirli, prepara la valigia e aspetta di partire con loro, ma Martin, capendo che la vita da fuggiasca non sarebbe adatta a lei, taglia la corda senza farsi notare e parte con Top. Laurie poco dopo scopre l'inganno, ma, ormai decisa ad abbandonare casa, saluta madre e sorella e si incammina.
Copland, che si accostava all'opera dopo svariati e vani tentativi di collaborazioni librettistiche, riversò in The Tender Land diverse esperienze personali, lutti, la relazione con Johns al tramonto (perché sì, era il suo librettista, il suo segretario e il suo amante) e, non ultima, quella di sentirsi addosso la responsabilità, dato il soggetto, di scrivere la prima vera opera americana colta, che sapesse davvero di America (leggi Stati Uniti): il precedente di Gershwin col suo Porgy and Bess era ancora troppo ancorato al mondo “altro” del jazz , del blues e degli afroamericani per parlare dei veri yankee, dei redneck dell'Alabama. A mettere i bastoni tra le ruote fu il maccartismo imperante e il dichiarato comunismo di Copland, motivo per cui l'opera venne rifiutata dalla NBC. Ormai composta, The Tender Land prese la via del teatro, e proprio al New York City Opera debuttò il primo aprile 1954, con la regia di Thomas Schippers e diretta da Jerome Robbins. Ma, largamente strumentata, concepita per la televisione e quindi nell'ottica di una mezza colonna sonora – genere nel quale Copland, al momento di The Tender Land, si era già prodotto in sei occasioni –, perdipiù annegata in un palcoscenico di grandi dimensioni, fuori posto col suo racconto di piccole cose, andò incontro all'insuccesso. A un mese esatto dalla detonazione dell'ordigno termonucleare più potente mai fatto esplodere dagli USA, il popolo americano voleva qualcosa che affermasse la sua supremazia, che lo facesse sentire superpotenza, non che si focalizzasse sulla chiusa e retriva vita provinciale dell'America meno nobile. Fatto curioso, quando venne fatta circolare tra gli Stati più agricoli, nel corso di uno studio dell'Università del Minnesota, i contadini invitati a vederla la gradirono più degli spocchiosi concittadini newyorkesi di Copland. È quanto accade nel documentario Opera on the farm del 1993.
Di Copland, il Regio aveva programmato, nel concerto del 23/10/2023, la suite da Appalachian Spring, il suo brano più famoso: quasi un “aperitivo a distanza” di quella che domenica 7 aprile 2024 è stata la prima esecuzione italiana, di cui si dà conto, della sua pressoché unica produzione operistica, escludendo The Second Hurricane del 1937. Oltre a programmare un titolo di sicura attrattiva se non altro per la sua rarità, strategicamente impaginato subito dopo La fanciulla del west, il Regio ha fatto tesoro dell'insuccesso del '54 optando non per la versione originale (poi rivista nel '55), ma per quella cameristica arrangiata per tredici strumenti da Murry Sidlin nel 1987 e, cosa più importante, autorizzata dal compositore: che aveva utilizzato lo stesso identico organico (ottetto d'archi più contrabbasso, flauto, clarinetto, fagotto e pianoforte) per Appalachian Spring: ed ecco che la programmazione del concerto di ottobre trova qui il suo sottile fil rouge, così come la regia cinematografica della Fanciulla di Valentina Carrasco. Proprio per l'organico cameristico si comprende anche la scelta di allestire lo spettacolo al Piccolo Regio Puccini: un ambiente più raccolto che, sacrificando l'acustica superiore dell'«ostrica semiaperta» del Mollino, fa da cornice più che adeguata all'ottima e bilanciata direzione di Alessandro Palumbo, alla guida degli elementi dell'Orchestra del Regio, come sempre sugli scudi per nitore di suono, benché talvolta gli archi paiano tradire l'originale scrittura per una compagine più numerosa; ad ogni modo, una prestazione di alto livello, capace di farsi proteiforme nel rendere sonorità normalmente distanti da quelle canoniche, come l'effetto di violini scordati nelle danze “all'irlandese” della festa di Laurie. Palumbo, poi, che da compositore di trascrizioni se ne intende – ha curato e diretto la sua versione da camera del Falstaff all'ultimo Festival Verdi, nonché l'orchestrazione di Un mari à la porte di Offenbach all'inizio della presente stagione torinese –, dimostra di aver compreso la natura pressoché “filmica” della partitura, secondando il collegamento tra le varie scene in maniera naturale, tendendo e allentando opportunamente il filo narrativo a seconda delle esigenze sceniche, e, nonostante l'orchestra sia alla stessa altezza della platea, calibrando le dinamiche in modo adeguato per non sovrastare i solisti.
Sia detto en passant: la musica di Copland, almeno qui, non è di quelle che “prenda” al primo ascolto, con melodie facili e orecchiabili: sovente deve essere vista, come si diceva, come una colonna sonora, che vive in simbiosi con la scena, elemento sinestetico alla vista, e qua e là sembra quasi non essere adatta al contesto, come nella scena in cui Grandpa Moss sorprende il bacio di Laurie e Martin, dove ci si aspetterebbe una musica improvvisamente più drammatica; ma ad un ascolto appena più profondo si scopre che, oltre all'eclettismo polistilistico, con accenni al jazz e al folk – si coglie perfino una fugace premonizione di Moon River, posteriore di sette anni! –, vi è l'impiego di temi ricorrenti, che aprono e chiudono l'opera, il tutto cucito insieme in un tessuto narrativo – che fa del “canto di conversazione” uno dei suoi registri espressivi, accanto a pagine di più aperta cantabilità – debitore a quel Peter Grimes che fu per Copland la folgorazione operistica e a quel Britten al quale chiese consigli su come scrivere un'opera. Ed è qui che l'abilità di Palumbo si fa determinante: nel flettersi alle diverse esigenze espressive, davvero molteplici.
La maestria di direttore e orchestra sono al servizio di solisti altrettanto soddisfacenti. Ksenia Chubunova, già apprezzata in altre produzioni, consegna a Ma Moss sia il suo bel timbro caldo e ambrato, che per l'occasione sembra quasi più scuro, sia le sue doti sceniche nel delineare la psicologia del personaggio: una donna in cui coesistono la sottomissione a una dimensione antropica patriarcale, inamovibile, che la porta sin dall'apertura a enumerare i suoi doveri di massaia, e l'iperprotezione nei confronti delle figlie, un atteggiamento ansioso che è in lei come una seconda natura.
Lodare Irina Bogdanova è come portar nottole ad Atene: la sua Laurie è semplicemente straordinaria. Il suo strumento sonoro, caldo, robusto, ben proiettato, soltanto con qualche perdonabile acuto un po' aspro, ben si adatta in tutti i registri a questo ruolo spesso spigoloso. Scenicamente lascia perplessi il contrasto fra l'ardimento di certe sue risposte, il suo anelito all'emancipazione, e di contro l'arrendevolezza degli atteggiamenti, che paiono non corrispondere, quasi come se il messaggio dichiarato a parole non trovasse vera risonanza nell'animo; ma anche questa può essere una lettura, specialmente se considerata tenendo presente il grande afflato lirico del duetto – non mi spingo a dire notturnamente tristaniano, in affinità col pericolo di essere scoperti, ma serale e segreto certamente sì – con Martin, il momento in cui Laurie/Irina si scioglie, abbattendo il muro di un'introversione un po' timida, e ha modo di sfoderare tutta la morbidezza del suo fraseggio (e la padronanza del suo inglese).
Valido anche Michael Butler, di cui si apprezza il timbro aurato e la voce morbida, flessuosa, soprattutto nel succitato duetto; piace anche la sua capacità di adattarsi a quasi due personaggi, il Martin innamorato con Laurie e il compagnone, con risvolti di complice, con Top, alias qui Andres Cascante, che offre una buona prova di canto espressivo, soprattutto nel sillabato del “duetto degli estranei” (atto I, scena IV, quasi un estratto da un musical di Broadway), e di recitazione ben riuscita, volutamente un po' macchiettistica, tra Charlie Chaplin e Stan Laurel, ricordati dalla bombetta del costume.
Il Grandpa Moss di Tyler Zimmerman completa il quartetto degli artisti del Regio Ensemble, insieme coi tre testé citati. Basso di stampo chiaro e di buona espressività, declina il suo personaggio nell'ottica di un nonno burbero ma bonario, anche se imbraccia la doppietta quando scopre il bacio della nipote. Ben si attaglia, a delinearlo, il costume che ricorda lo Zio Jesse di Hazzard ma con una barba da amish (e coerentemente senza baffi). Convince infine anche il Mr. Splinters di Valentino Buzza, dalla bella voce corposa e lucente.
Il comprimariato si attesta su un livello generale all'altezza dei solisti, vale a dire molto buono: Giulia Medicina (Mrs. Splinters), Davide Motta Fré (Mr. Jenks), Junghye Lee (Mrs. Jenks), Eun Young Jang (Una ragazza e Voce fuori scena), Giovanni Castagliuolo (Un uomo), Roberto Calamo (Altro uomo) e la bravissima Layla Nejmi nella parte di Beth Moss, che si alternerà nelle prossime recite con Minerva Bonizio.
Per la prima volta dacché il Piccolo è tornato in uso, vi è qui la partecipazione del Coro del Regio, o meglio di alcuni suoi elementi, date le dimensioni, che istruiti da Ulisse Trabacchin, al solito pervengono a un ottimo risultato, anche a livello scenico.
La semplicità gran pregio: parafrasando Rodolfo, semplicità ed efficacia connotano sia i costumi di Laura Viglione, cui s'è accennato, tutti in linea con testo e contesto, e soprattutto con l'epoca, una coerenza sempre più rara, sia le scene di Claudia Boasso, e sia la regia di Paolo Vettori, che ancora una volta centra l'obiettivo di uno spettacolo diretto e trasparente, ironico e malinconico, con un tenue simbolismo non criptico e per questo facilmente traducibile.
Una semplicità che non vuol dire faciloneria o superficialità. Certo, ci si deve attenere alle risorse limitate del Piccolo: ma già la prima scena, uno spoglio interno in legno con una sedia a dondolo e poco altro, e Ma Moss in tenuta casalinga, con quinte che ricordano staccionate, è una ricostruzione, se non fedele, suggestiva, proprio come la grande chioma rossa dell'albero che fa da sfondo (l'Acer rubrum è nativo del Nordamerica: nota di botanica coerenza). Vettori però lo parafrasa ad albero genealogico della famiglia Moss, col coro che si affaccia da finestrelle camuffate nelle foglie a vegliare (o a spiare) sulla loro discendente, la prima ad aver studiato e aver visto un po' di mondo, per quanto si possa supporre che abbia visto poco più del banco e dell'aula: già troppo per il nonno, che licenzia un ragazzino solo perché Laurie gli ha messo gli occhi addosso; già troppo per Ma, che ha come oggetti-feticcio una casetta, simbolo dell'ambiente domestico, e due bambole (e qui il rimando a Ibsen è immediato), una vestita di rosso come Laurie, una di bianco come Beth: perché le figlie, per lei, sono bambole da vezzeggiare, e devono, ripeto devono, non avere volontà propria: bianco-purezza-Beth, che non si è mai mossa dal villaggio; rosso-peccato-Laurie, che ha varcato la soglia di casa: Laurie che in parte è diventata anche lei “foresta” e quindi attratta dai forestieri che sono da tenere alla larga già solo per essere tali. E che guarda caso vedrà in Martin il simbolo della vita libera ed errabonda, tutto l'opposto di ciò che è lei; e si sa che gli opposti si attraggono.
Nella sua apparente semplicità, The Tender Land raccoglie molti spunti, dal conflitto generazionale nonno-nipote e madre-figlia alla voglia di indipendenza (la partenza di Laurie), dalle aspirazioni a una comunità universale, come nel quintetto che chiude l'atto I, alla dimostrazione che sia impossibile, come la cacciata di Top e Martin che esemplifica il timore del diverso. Interessante che il piano meditativo, extra-trama, venga trattato da Vettori diversamente da quello dello svolgimento della storia, ultimo retaggio della suddivisione recitativo-aria. Nel quintetto tutti i personaggi inneggiano all'amore tenendosi per mano sulla ribalta, non più personaggi ma latori di un messaggio; Laurie afferma di non essere fatta per quell'ambiente quando in sala si accendono le mezze luci e lei è nel fascio del seguipersone; il duetto Laurie-Martin avviene sulla ribalta a sipario chiuso, con la festa che idealmente continua al di là di esso, garantendo quell'intimità che in un film sarebbe data da una veranda, un balcone, una camera al piano di sopra; Ma Moss, di fronte alla partenza di Laurie, mette due assi di legno a croce sulla finestra della sua camera, come a dire che si chiude un'epoca, oppure che la disconosce come figlia, chissà; infine Laurie stacca un petalo da una piantina e lo consegna a Beth, poi esce di scena e si sistema vicino a Palumbo, valigia in mano; e Beth, mentre le luci scemano, le azzeccatissime luci di Gianni Bertoli, lo protende verso la sorella lontana: come se le avesse passato il testimone del suo riscatto, quando sarà grande, oppure il ricordo di chi ha avuto il coraggio di allontanarsi, sapendo che lei non lo farà mai. Un finale aperto, come lo è quello dell'opera, anche nella regia, con un'inquadratura che sembra dissolversi, onirica e sospesa, e che non ha mancato di far scendere la lacrimuccia alla parte più sensibile del pubblico.
Pubblico che accoglie con applausi convinti cast e gruppo registico e che si ferma a scambiarsi opinioni ancora a lungo dopo la calata del sipario. In scena sino a martedì 7 maggio, chi può non se la perda.
Christian Speranza
11/4/2024
Le foto del servizio sono di Daniele Ratti.
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