Quando vedete un uomo e una donna che stanno per sposarsi,
chiedetevi chi sarà ad uccidere l'altro…
A proposito di Schmitt. Gran bella mano quella di Eric-Emmanuel, francese di nascita e belga da subito, oggi cinquantatreenne d'assalto, scrittore proteiforme e “poliglotta” (confessiamo d'esserci arrivati un tantino prima che Fabienne Pascaud di Télérama lo definisse conteur caméléon) dalla letteratura al cinema passando e ripassando brillantemente per il teatro che pare averlo folgorato per via e “per colpa” di un catturante Cyrano de Bergerac con Jean Marais.
Acrobata d'ucronie, Schmitt - La parte dell'altro (come dire “se” Hitler avesse superato gli esami d'ammissione all'Accademia di Belle Arti: un artista in più e un imbianchino in meno?) e Il vangelo secondo Pilato, un punto di vista non così frequentato da altri se non nel libretto di Tim Rice per Jesus Christ Superstar. Officiante di “ri-creazione” musicale e musicologica (Le mystère Bizet, Ma vie avec Mozart) e d'architetture filosofiche e poetiche in un colpo solo (M. Ibrahim et les fleurs du Coran che divenne film “spalmato” sul volto magnifico di Omar Sharif) o d'irriverenti, appetitose congetture (Rousseau e Diderot che lavorano all' Enciclopedia ma nessuno dei due vuol sentirne di compilare la voce “morale”). E che dire, poi, di scritti agilmente convertiti in racconti per immagini come Le libertin con Serrault e la Ardant o la singolarissima, tragicomica Odette Toulemonde.
Gran bella mano, quella di Eric-Emmanuel Schmitt, da poco meno di due anni direttore del Théatre Rive Gauche ma da lunghissima pezza drammaturgo forse tra i più rappresentati e certamente il più tradotto (oggi si contano 40 lingue).
Una mano più che mai teatrale, dunque, e serratissima se si tratta, per esempio, di Piccoli crimini coniugali, un “delirio a due” che fa gola a molti: qualche anno fa, fu Sergio Fantoni a curarne traduzione e regia per gli interpreti Andrea Jonasson e Giampiero Bianchi, oggi è il Teatro Stabile di Verona – nei giorni scorsi, ospite dello Stabile di Catania per la stagione “Isola del Teatro” alla rinnovata Sala Musco - a proporlo nella messinscena di Alessandro Maggi, con Elena Giusti e Paolo Valerio, musiche di Germano Mazzocchetti, scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta.
Il witz – abbondantemente e felicemente “contaminato” con altre suggestioni culturali e drammaturgiche – è già bell'e detto ad apertura di sipario: un apparente (e conclamato, a sentire l'ospedale e la legittima consorte) smemorato, Gilles, tenta di riguadagnare terreno e identità con l'aiuto della moglie Lisa. “Avrei voluto conoscermi” ironizza (o forse no) lui non appena apprende da lei d'essere (stato?) pittore e “giallista” di successo, e non senza aver messo in dubbio l' “incidente” dell'amnesia, avanza l'ipotesi che Lisa possa solo essere una vedova qualsiasi che, incapricciata di uno smemorato qualsiasi in un ospedale qualsiasi, abbia deciso di portarselo a casa. E lei, da un “normale” contributo a rimettere insieme i pezzi, sembra scivolare chissà quanto scientemente nel gioco di lui e come lui prende a parlarne al passato quasi avesse accettato – lei pure – l'idea di averlo definitivamente perso. “Sono sulle mie tracce…” insiste lui.
Ma, come gli esami, le domande non finiscono mai. Chi era, Gilles? Che cosa era? Come si comportava? Quali erano i suoi hobby? Quali i pregi e i difetti? E – soprattutto – quale relazione li univa? Eppoi, che cosa ha causato l'amnesia?
A questo punto, gli “interrogati” sono due e Lisa non è certo più preparata di Gilles giacché più che scene da un matrimonio sono prove tecniche di un atto “criminoso” già di per sé e che, qui ed ora, sembrerebbe aver smarrito del tutto la sua ragione storica. Non è più Gilles a ricostruire il suo passato ma sono entrambi costretti a ricostruirsi.
A tratti, Piccoli crimini coniugali sembra, da un canto, portare alla mente gli “assurdi” signori Martin della Cantatrice calva di Ionesco che, per minuti che sembrano un'eternità, non si conoscono affatto; si ri-conosceranno soltanto dopo un elenco grottesco di bizzarre “coincidenze”; d'altro canto, quasi un vago, acre profumo di Otto donne giacché se nella pièce di Robert Thomas il presunto assassinio – al piano di sopra - del capofamiglia si tramuta in un test affettivo per tutte le componenti della famiglia, qui l'amnesia diventa “una risposta a una domanda che s'ignora”. Oppure è un'invenzione (di Gilles) per capire meglio il suo matrimonio o invece, paventa Lisa, la conseguenza della caduta sulle scale di lui nel tentativo di uccidere lei che voleva lasciarlo.
La realtà è molto più cruda – “quando vedete un uomo e una donna che stanno per sposarsi, chiedetevi chi sarà ad uccidere l'altro” – l'epilogo problematicamente inevitabile: dopo tentativi di fuga abortiti o fortunosamente sventati, i due restano insieme. Se “insieme” può dirsi.
A proposito di Schmitt, ingegno e ingegneria del dialogo.
Attenzione, però. La sua bella mano di playwriter consumato e freschissimo che irretisce spettatori e attori può portare questi ultimi a pensare che immediatezza e “naturalezza” bastino a restituire le complicazioni del testo. E lì scatta l'altro “crimine” quello di trasformare la pièce di Gilles e Lisa in una sit-com. Che è – nella migliore delle ipotesi e con le migliori intenzioni – ciò che accade nell'allestimento dello Stabile di Verona in cui la regìa è tanto discreta da risultare latitante mentre gli attori diligentemente, onestamente, appassionatamente compitano. E di rado, assai di rado, si addentrano in quello spazio misterioso e necessario tra autore e platea che si chiama interpretazione.
Ma per quest'ultimo “piccolo crimine” è già scattato l'indulto: ascoltare e riascoltare Schmitt fa bene. Alla mente e al cuore.
Carmelita Celi
4/2/2014
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